“Me ne andavo una mattina a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare. Era una barca che andava a vapore e issava una bandiera tricolore”. Quanti lettori ricordano questi vecchi versi dell’ottocentesco ‘rimaiolo’ filo sabaudo Mercantini e la curiosa – ma non troppo – interpretazione in chiave patriottica della spedizione di Carlo Pisacane che egli propose nella Spigolatrice di Sapri? Oggi quei versi non vengono più recitati dagli alunni di scuola elementare all’esame di quinta, così come ai loro fratelli maggiori ben difficilmente vengono proposti corsi universitari esaustivi ed approfonditi sul Risorgimento italiano (normalmente i programmi di storia moderna si fermano a Napoleone, mentre quelli di storia contemporanea partono dal 1870): 55 anni che per un motivo o per l’altro nessuno può o vuole ricordare, sul piano pubblico o accademico. Ciò che è accaduto al Risorgimento, con tutta probabilità, accadrà anche per il nostro passato più recente, se noi, che siamo contemporanei e posteri, rifiuteremo di ricordare la verità.
Nel giugno del 1857 Carlo Pisacane, intellettuale eclettico dal passato burrascoso, appartenente alla seconda generazione di socialisti utopisti italiani, sbarcò a Ponza con un gruppo di volontari, liberò circa 300 prigionieri detenuti nelle carceri locali (dei quali la quasi totalità colpevole di reati comuni) e li diresse nell’interno della costa, sperando di suscitare un’insurrezione popolare di stampo egualitario e ‘socialisteggiante’ contro lo Stato borbonico. La spedizione venne assaltata e sopraffatta dalla popolazione locale, che consegnò i superstiti agli ufficiali borbonici. Questa, con annesse luci ed ombre, la verità. Un giovane e bello capitano, “con gli occhi azzurri ed i capelli d’oro”, mosso da patriottico ardore unitario, sbarca a Ponza con trecento arditi e pronti alla morte, nel nome della medesima sua causa, ma viene affrontato dai suoi spietati nemici antirisorgimentali, nettamente superiori di numero, sgominati ben due volte nella ‘pugna gloriosa’, combattuta all’ombra del glorioso tricolore. Questa la versione degli unici vincitori della grande battaglia culturale risorgimentale, i Savoia ed i loro sostenitori, capaci di trasformare una generazione di ribelli aspiranti all’uguaglianza ed alla pace tra i popoli, nei fideisti ed accorati martiri di un’Italia unita, guarda caso, proprio sotto i Savoia. Ossia nei precursori del nazionalismo controrivoluzionario ed antilibertario dei decenni a cavallo fra otto e novecento. Ciò che rende il Risorgimento attuale è la sua natura di fenomeno storico, le sue direttrici programmatiche e le sue contraddizioni, ma solo attraverso una ‘battaglia culturale’ di segno opposto a quella vinta dal notabilato liberale sabaudo, noi, i posteri, potremmo restituirlo al presente.
Con questa lunga premessa, in cui, forse, è tutto o quasi il senso del presente intervento sul problema del Revisionismo sulla Resistenza, si è voluto dare un’idea di quello che potrebbe essere un primo e superficialissimo approccio metodologico per un’interpretazione in chiave storiografica dell’eredità morale dell’esperienza partigiana.
In effetti, probabilmente, le domande più urgenti da porsi non dovrebbero riguardare la natura o l’origine del fenomeno revisionista, quanto le istanze più profonde e immediate del movimento resistenziale, lasciate nell’ombra tanto dai celebratori che dai detrattori di professione. Una critica matura ed approfondita si è imbattuta – e continuerà ad imbattersi – in uomini e donne a tutto tondo ed alle loro necessità concrete e vitali, ben lontane dai sognanti e lineari contorni delle ideologie, ma soggette alle contraddizioni ed alla casualità che, a volte, fanno di scelte decisive la somma di circostanze più o meno fortuite. Uno strumento preziosissimo e di facile consultazione per gli studenti dell’ateneo pavese è l’immenso patrimonio di testimonianze, scritte ed orali, raccolte durante un trentennio dal Centro Studi della Resistenza di Pavia. Attraverso l’ausilio di tecniche di intervista e di raccolta documentaria elaborate nell’ambito delle discipline attinenti alla storia orale, centinaia di testimonianze, singole e di gruppo, hanno restituito il vissuto di protagonisti e comprimari del fenomeno resistenziale, i rapporti reciproci tra comandanti e gregari, le dinamiche interne ai gruppi partigiani, il rapporto coi civili e la percezione del nemico: frutto facilmente fruibile di questo lavoro di raccolta è un volume ancora oggi insuperato, ossia L’altra guerra, di Giulio Guderzo, sulla Resistenza nel Pavese. Proprio la metodologia elaborata dalla storiografia orale consente allo studioso di squarciare il velo delle reticenze individuali e collettive, per superare gli assunti della vulgata ufficiale sulla Resistenza e ricostruire un quadro finalmente autentico ed a 360 gradi.
Impossibile non accorgersi, a questo punto, che la prima falsificazione e strumentalizzazione del senso profondo del fenomeno resistenziale fu proprio quella dei vincitori del secondo conflitto mondiale. Vincitori che, è bene ricordarlo, non furono i partigiani, ma i pazienti tessitori della politica italiana, che dovevano traghettare il paese dal fascismo alla ‘democrazia’, ricercando linguaggi e strategie tali da acclimatare il paese – e se stessi – ad un nuovo ordine internazionale. Che tale classe politica abbia utilizzato più che guidato il movimento partigiano, come strumento di pressione politica sugli alleati, è indubbio, così come è indubbio che, a prescindere da alcune istanze generali, accolte a livello puramente programmatico nella Costituzione italiana, la complessa e gloriosa progettualità dei ‘ribelli’ ebbe scarsa eco nelle priorità del nuovo regime (come dimostra chiaramente la mancata epurazione antifascista nell’amministrazione pubblica e nella magistratura, nonché la tabula rasa delle esperienze di governo dei Cln locali, per cui si rimanda alla informata bibliografia divulgativa di Aldo G. Ricci). Funzionale alle esigenze di una classe politica che si apprestava a governare il paese secondo metodi ed istanze assolutamente tradizionali, fu la costruzione di una percezione dei partigiani come di patrioti, in lotta contro l’invasore straniero, supportato dai traditori fascisti e repubblichini, nel nome degli ideali libertari, democratici ed egualitari che la carta costituzionale raccoglie nei primi tredici articoli (ossia quelli che contano meno).
Così, mentre il mondo dei reduci partigiani ricostruiva, nella delusione e nel vuoto di senso individuale e collettivo, una memoria più intima e più consapevole dei propri meriti, delle colpe, dei fallimenti, degli eroismi e delle mediocrità (i romanzi per nulla roboanti ed idealizzanti di Beppe Fenoglio basterebbero da soli a renderne l’idea), la retorica ufficiale di Stato e di Partito marciava per la propria strada tappezzata di allori mai cercati, creando la cosiddetta “Vulgata sulla Resistenza”, come ebbe a chiamarla De Felice. Solo che quella retorica non fu che in minima parte la voce di quanti la Resistenza la avevano effettivamente vissuta.
Certo molti si lasciarono strumentalizzare, molti accettarono ruoli dalle istituzioni e non poterono sottrarsi al generale oblio di una verità scomoda, nella sua straordinaria umanità: il primo atto dell’esperienza partigiana, l’atto fondante, la “scelta da cui tutto dipese” (nelle parole sempre alte e lucide del comandante Maino, alias Luchino Dal Verme) fu una fuga.
La fuga di soldati senza ordini, di un esercito sconfitto; la fuga di soldati traditi dal Re e dal Duce, che mai e poi mai avrebbero voluto ritornare a combattere per quei medesimi tromboni incapaci che li avevano spediti a morte certa, solo per avere qualche migliaio di morti da far pesare al tavolo delle trattative. Ecco il peccato inconfessabile di un fenomeno di massa che conobbe la sua prima rete di spontanea e generosa solidarietà nel dare soccorso ai soldati in fuga dai tedeschi ed ai renitenti ricercati dalla Rsi. Ma ecco anche il primo formidabile lascito di un gruppo (che importa se grande o piccolo) in cui ciascuno ha imparato a ‘decidere’, vede la realtà coi propri occhi di individuo debole e non di pedina strumentale alle esigenze del potere, superando le categorie falsate e imbecilli di ‘onore’ e di ‘patria’ e non si vergogna di chiedere, per sé, per il proprio popolo e per tutti i popoli, la ‘pace’ senza se e senza ma. La SCELTA impone la fuga: si va in montagna. In montagna si deve sopravvivere e soprattutto ci si deve difendere: ecco l’organizzazione militare, il vero motore delle scelte dei gruppi partigiani, che si rendono conto di avere di fronte forze superiori e che pertanto non vanno troppo per il sottile circa le ideologie e le convinzioni. Chi ne è capace, comanda; chi è in grado di ottenere il rispetto di tutti, ex - militari e non, impartirà loro gli ordini necessari: al cattolicissimo conte Luchino Dal Verme verrà pertanto dato il comando della divisione Gramsci, e non sarà un caso isolato. Naturalmente l’imminente fine della guerra, le problematiche suggerite da una percezione di ruoli e gerarchie democraticamente reinterpretata, oltre che l’effettiva possibilità di gestire amministrazioni e strutture nelle aree liberate, saranno i moventi di una profonda ed eclettica autoeducazione politica: il problema concreto e l’ideale sognato fanno sentire la propria voce in un panorama di programmi e di istanze assai vario, su cui, nei fatti, l’azione per così dire catechistica dei commissari politici si impone soltanto a fatica, anche se, naturalmente, la grande maggioranza si dichiara marxista.
Alberto Bevilacqua nel suo Sull’utilità della storia avverte che la vera storia, la storia che ha un peso nella costruzione della nostra percezione della realtà – una costruzione che sia paziente, quotidiana ed empirica, non isterica, strumentale e sclerotizzata in sterili ‘idealtipi’ – può partire solo da domande poste con sincerità intellettuale ad una pluralità di fonti diversificate e confrontabili.
Le questioni brevemente e superficialmente proposte – circa il ruolo del pacifismo, della presa di coscienza individuale, delle esigenze concrete dettate dalla lotta di sopravvivenza al nazifascismo, nel determinare i tratti distintivi del movimento resistenziale – dovrebbero contribuire a suggerire una risposta rispetto ad una letteratura, più o meno seria, che sempre più spesso allontana i giovani, più che avvicinarli, alla storia dell’antifascismo.
Nella faticosa lotta per la difesa delle nostre libere coscienze, è infatti a questa storia – e solo ad essa – che possiamo rivolgerci quale fondamento di una battaglia culturale che sottragga la Resistenza al passato morto delle patrie nazionali difese dagli invasori (cardine della partigianeria perbenista verniciata di democrazia, in stile prima repubblica) ed a quello delle logiche fideistiche di partito sbriciolate assieme al Muro di Berlino (nelle quali la nuova vulgata revisionista vorrebbe confinare la Guerra di Liberazione, spostando tutto il peso del discorso storiografico, si fa per dire, sulla Guerra Civile), per restituirlo ad un presente bisognoso di tornare a credere nella pace, nella fratellanza tra i popoli, nel valore politico della progettualità utopica e spontanea, nel coraggio di combattere per il diritto di rifiutare di combattere.
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