lunedì 31 maggio 2010

Assalto israeliano continua la politica della violenza

La Freedom Flotilla è stata attaccata dalle navi israeliane nella notte, vi sono 19 morti confermati. L'attacco si configura come un atto di pirateria, in quanto le imbarcazioni si trovavano a largo della costa Israeliana, in acque internazionali a circa 75 miglia dalla costa israeliana. L'attacco immotivato ha scatenato anche la reazione di alcuni Stati e persino l'Unione Europea sta aprendo un'inchiesta in merito, attualmente l'unica reazione istituzionale italiana è stata di condanna per le numerose morti.

MILANO ORE 18.00 P.ZZA S. BABILA

PRESIDIO PER PROTESTARE CONTRO L’ATTACO ISRAELIANO ALLE NAVI DEI PACIFISTI INTERNAZIONALI - CHE HA PROVOCATO 19 MORTI - E PER LA FINE DELL’ASSEDIO DI GAZA

venerdì 28 maggio 2010

GRECIA: DALL’ANTIPOLITICA AL BERLUSCONISMO? La figura di Andreas Vgenopoulos e le possibili conseguenze politiche della crisi (n°4 - giugno 2010)



Dal nostro uomo a Salonicco. Il 5 maggio, in occasione dello sciopero generale indetto dai sindacati contro le misure economiche varate dal governo del socialista Papandreou, Atene ha visto scendere in piazza un'enorme folla di dimostranti. 100, 150, forse 200 mila persone hanno sfilato per ore lungo le vie della città, in quella che probabilmente è stata la più grossa mobilitazione popolare dalla fine della dittatura dei colonnelli nel 1974.
Ma non è per l'enorme partecipazione che verrà ricordata questa manifestazione, purtroppo: ancora prima che il corteo si sciogliesse le agenzie di stampa avevano battuto la notizia della morte di tre impiegati morti asfissiati all'interno della banca nella quale stavano lavorando, in seguito all'incendio appiccato da un gruppo di manifestanti.
Inevitabilmente l'attenzione dei media, sia greci che internazionali, si è focalizzata sulla drammatica scomparsa dei tre, due donne e un uomo, poco più che trentenni. Al di là delle prevedibili dimostrazioni di sdegno e commozione, questo tragico evento avrebbe però potuto fungere da spunto per alcune riflessioni sulla Grecia al tempo della crisi, attirando, in particolare, l'attenzione su una figura emblematica e senza dubbio rivelatrice delle trasformazioni in atto nel paese.
La banca in questione è infatti una filiale della Marfin Popular Bank, uno dei principale istituti di credito greci (e non solo, visto che pochi anni fa ha acquistato la principale banca cipriota) e parte dell'impero Marfin Investment Group (MIG). Questo gruppo finanziario, il più grande di Grecia per giro d'affari, comprendente industrie alimentai, fast-food, compagnie di traghetti (la Super Star Ferries e la Blue Star Ferries, tenete presente doveste venire in vacanza in Grecia..), la compagnia aerea ex-nazionale-ora-privatizzata Olympic Airlines (la cui parabola presenta più di una somiglianza con quella di Alitalia), catene di alberghi e ospedali privati, fa capo a tale Andreas Vgenopoulos.
Osannato come il nuovo Onassis dai suoi numerosi ammiratori, Vgenopoulos, da un paio d'anni anche principale azionista e presidente del Panathinaikos, la squadra di calcio più popolare di Atene, è un gran bell'esempio di self made man alla greca. Di formazione giuridica, per circa quindici anni è stato a capo di un importante studio di avvocati ad Atene. La svolta per lui arriva nel 1998 quando, grazie a un'ingente somma affidatagli da armatori greci e investitori arabi, fonda la società di investimenti Marfin Financial Group (cambierà nome in MIG alcuni anni dopo). Per alcuni anni la Marfin opera in borsa con successo, fagocitando società rivali e acquisendo il controllo di istituti di credito di piccole dimensioni. Questo fino al 2005, quando il capitale azionario aumenta improvvisamente grazie a un massiccio investimento da parte della Dubai Investment Group. Forte di una disponibilità di capitali senza rivali per il mercato greco, Vgenopoulos e i suoi soci arabi iniziano a lanciare OPA a destra e a manca, assumendo rapidamente il controllo di tantissime imprese.
Alla folgorante ascesa di Vgenopoulos fa da contraltare la non esaltante situazione dell'economia greca: dopo una vertiginosa e ventennale crescita economica, la quale per altro si ripercuote solo in minima parte sui salari, tra i più bassi d'Europa, la situazione inizia a peggiorare. Il primo campanello d'allarme suona nel 1999 quando, dopo anni di folli speculazioni che avevano gonfiato a dismisura il valore di molti titoli azionari, la bolla speculativa scoppia improvvisamente facendo crollare la borsa e mandando in rovina migliaia di piccoli investitori. Gli sperperi per i lavori legati ai Giochi Olimpici del 2004 e le spese dissennate del governo Karamanlis hanno poi affossato definitivamente dei conti pubblici da sempre drammaticamente in rosso, fino a quando la situazione è apparsa in tutta la sua gravità con l'insediamento del governo del Pasok nell'autunno scorso.
Corruzione e clientelismo non sono certo una novità nella gestione del potere in Grecia; hanno accompagnato il paese fin dalla fine della dittatura e sono sotto gli occhi di tutti, anche perché non tutti, ma molti, ne traggono un qualche vantaggio. In tempo di crisi, però, le colpe della classe politica dominante (i due partiti-famiglia, Pasok/Papandreou e Nea Dimokratia/Karamanlis) vengono pesantemente stigmatizzate da un'opinione pubblica desiderosa di una ventata di novità. È a questo punto che Vgenopoulos, fino ad allora estremamente schivo e lontano dai riflettori, diventa un personaggio di primo piano del dibattito pubblico greco. Inizia a rilasciare interviste a televisioni e giornali dove professa la sua fede nel libero mercato («la gioia dell'attività imprenditoriale è la libera concorrenza») come soluzione alle bustarelle e all'immobilismo dei gruppi di potere legati ai partiti che soffocano l'economia del paese. Vgenopoulos si scopre così un ottimo intercettatore degli umori popolari e si guadagna molti consensi proponendo di rendere pubblici i conti in banca e i patrimoni di tutti i ministri e parlamentari. Non disdegna di riciclare demagogicamente gli slogan della piazza quando sostiene che «la crisi la devono pagare quelli che l'hanno creata, i politici», ma moltiplica anche gli attacchi contro l'irresponsabilità della sinistra e dei sindacati nell'aizzare scioperi e proteste.
Nell'ultimo periodo, con un'opinione pubblica alla disperata ricerca di un taumaturgo capace di traghettare la Grecia fuori dalla crisi, le prese di posizione a favore di un suo impegno politico si sono moltiplicate. Il fronte pro Vgenopoulos è ampio e variegato: si va dai nostalgico-fascisti che in nome della «salvezza nazionale» invocano «i "MIG" di Vgenopoulos 43 anni dopo i tanks di Papadopoulos», a numerosi mezzi di informazione come il quotidiano, conservatore ma molto autorevole, Kathimerini, fino ad arrivare ai tifosi, organizzati o meno, del Panathinaikos o a settori della Chiesa Ortodossa, per altro non proprio disinteressati visto che un potente monastero ortodosso, già coinvolto in uno scandalo immobiliare che nel 2008 portò alle dimissioni di due ministri, possiede un discreto pacchetto di azioni della MIG. Ma è soprattutto la gente comune, i milioni di Greci non schierati politicamente, che non partecipano alle manifestazioni ma votano i due grandi partiti di governo per abitudine o interesse, ad aver individuato in lui il salvatore della patria. Secondo un recente sondaggio la maggioranza dei Greci lo vedrebbe bene al ministero dell'economia, e lo stesso sondaggio rivela l'enorme potenziale elettorale del cosiddetto "partito degli imprenditori" della cui creazione si vocifera da tempo.
La soluzione proposta da Vgenopoulos per ripianare i conti dello Stato è semplice e accattivante: oltre a paventare, senza crederci veramente neanche lui, un'uscita momentanea dall'eurozona per rilanciare l'economia tramite l'inflazione, propone di coinvolgere i suoi amici di vecchia data, gli investitori arabi, in modo da tenere lontano dalla sovranità nazionale la poco amata Unione Europea e l'odiatissimo Fondo Monetario Internazionale. Trattandosi dell'uomo che ha convinto il governo a privatizzare la compagnia aerea nazionale e, parzialmente, OTE, la società pubblica di telecomunicazioni (le azioni in quota Vgenopoulos di quest'ultima sono state però rapidamente rivendute a Deutsche Telekom, unico "neo" nella carriera di un investitore che si dichiara paladino dell'interesse nazionale) si può immaginare quale sarebbe il prezzo da pagare per un eventuale iniezione di capitali privati nel bilancio dello stato. Un prezzo probabilmente ben accetto da parte di un'opinione pubblica sfiduciata verso una classe politica e uno Stato giudicati, non del tutto a torto, incapaci di amministrare decentemente i beni del paese.
Ma in ultima analisi il motivo principale della popolarità di Vgenopoulos risiede probabilmente nell'essere riuscito a porsi come l'alfiere dell'antipolitica, l'imprenditore di successo lontano dal marcio del potere che non ha dovuto stringere alleanza con i partiti per creare il suo impero. La realtà dei fatti è però leggermente diversa. Se in questo momento l'unica forza parlamentare che lo appoggia più o meno apertamente è il partito di estrema destra La.O.S., Vgenopoulos in passato ha goduto di espliciti appoggi sia in seno al Pasok che a Nea Dimokratia, come dimostrano le prese di posizione in suo favore di vari ministri e parlamentari al momento della privatizzazione dell'OTE. Così come, quando esige di sapere «che fine hanno fatto i 120 miliardi di euro», cioè il debito contratto dal governo Karamanlis, il nostro uomo sembra essersi dimenticato che proprio quel governo ha letteralmente regalato una trentina di miliardi alle banche greche per ripianare i loro conti, e che quindi una fetta di quei soldi è finita proprio nella casse della MIG.



Ma, al di là di un indubbio fiuto per gli affari, quali sono le basi della fulminea ascesa di un uomo come Vgenopoulos, e quella, su scala minore, delle migliaia di Vgenopoulos che infestano la Grecia? A questo proposito si potrebbero magari citare le accuse di aver corrotto giornalisti e imprenditori rivali, e un atteggiamento quantomeno spregiudicato nella giungla della finanza, atteggiamento talvolta sanzionato anche da multe e condanne, di lieve entità, da parte di tribunali e organi di vigilanza. Oppure la "liberalizzazione" selvaggia verso la quale stanno andando incontro i diritti, per altro già scarsamente applicati, di moltissimi lavoratori greci, sia nel pubblico che nel privato. A proposito dei tre impiegati morti nell'incendio: Vgenopoulos non si è nemmeno preoccupato di smentire le voci su una loro precettazione forzata alla vigilia dello sciopero, con il direttore che avrebbe minacciato di licenziamento chi non si fosse presentato al lavoro in una banca dove non erano rispettate le più basilari norme di sicurezza, prime su tutte quelle contro gli incendi.
Proprio i diritti dei lavoratori, i loro salari e le loro pensioni, sono le principali vittime del piano di risanamento votato nelle ultime settimane al parlamento greco per venire incontro ai diktat di Bruxelles e dell'FMI ma anche ai desiderata dei grecissimi neoliberisti, ansiosi di ridurre la faraonica spesa pubblica greca. Giustamente vengono presi provvedimenti contro gli sperperi di un'amministrazione pubblica elefantiaca, ma contemporaneamente si usa il paravento della crisi per fare piazza pulita di stato sociale e tutele dei lavoratori.
Così le nuove misure facilitano i licenziamenti, abbassano, in media di un 20%, il reddito dei dipendenti pubblici, creano contratti di primo impiego per i giovani a poco più di 500 euro mensili, vincolano le pensioni minime (360 euro al mese che, bontà sua, per il momento il governo non ha voluto diminuire) alla buona riuscita del piano di riforma pensionistica; in altre parole, se tra un paio di anni i conti ancora non dovessero tornare si taglieranno anche quelle. Mentre invece speculatori, banchieri, investitori senza scrupoli che si preparano a delocalizzare tutto, palazzinari che anche in tempo di crisi continuano a far costruire dai muratori albanesi case su case, gli squali come Vgenopoulos che si sono arricchiti destreggiandosi nel far-west greco osservano compiaciuti senza venire praticamente sfiorati dai provvedimenti, dato che al momento non sono previsti aumenti nella tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie, ma solo dei redditi.
Difficile prevedere gli sviluppi futuri sulla scena greca, anche nel breve termine. Per il momento il governo del Pasok sembra ancora ben saldo: le proteste di piazza non sono infatti accompagnate dalla proposta di reali alternative politiche. Resta il fatto che la disaffezione della gente verso il parlamento e i partiti tradizionali non è mai stata così alta, tanto che alcuni osservatori greci iniziano a tracciare dei parallelismi con quello che è successo in Italia all'inizio degli anni '90. E chi meglio di Vgenopoulos sarebbe pronto a giocare il ruolo del Berlusconi locale? Le caratteristiche ci sono tutte, anche la mancanza di mezzi di informazione nel suo impero (la MIG si limita ad appena il 3% delle azioni della televisione Alter) è ampiamente compensata dalle solide alleanze con personaggi chiavi nel settore, come il gruppo Alafouzos, proprietario del quotidiano Kathimerini, della televisione Skai e di numerose emittenti radiofoniche.
Il diretto interessato finora ha sempre categoricamente smentito un suo ingresso in politica, anche perché si rende conto che amministrare la Grecia in questo momento è una missione disperata. Intanto però la popolarità del personaggio è evidente, ben al di là dei sondaggi, e Vgenopoulos sa di essere sulla cresta dell'onda: sicuro di sé e arrogante, non ha esitato a presentarsi alla filiale del Marfin Bank ancora fumante dalla quale erano appena stati estratti i corpi dei tre dipendenti morti. Incurante delle accuse che gli sono state urlate contro dai numerosi manifestanti ancora presenti, per altro prontamente allontanati dai lacrimogeni e dai manganelli della polizia, si è così concesso un'altra passerella sotto gli obiettivi alle telecamere. Il comunicato della Marfin Bank, un duro attacco ai «responsabili morali» della tragedia, alle «complicità politiche» di cui godrebbero gli "incappucciati" e all'arrendevolezza del governo, è poi arrivato puntuale poche ore dopo la tragedia a sottolineare una volta di più il ruolo, chiaramente politico, che Vgenopoulos intende giocare nel complicatissimo scacchiere della società greca.

CASSA INTEGRAZIONE, TAGLI E CHIUSURE: ANCORA CRISI NERA PER I LAVORATORI DI PAVIA E PROVINCIA (n°4 - giugno 2010)


La disoccupazione in Italia sta arrivando al 9%. Provano a dire che siamo messi bene, o almeno meglio di Grecia, Spagna, Portogallo, del resto il tasso di disoccupazione medio in Europa è del 10%. Ma la differenza (minima) si spiega facilmente con i dati della cassa integrazione, mezzo usatissimo in Italia e molto poco nel resto d’Europa. I cassintegrati non restano cassintegrati in eterno e spesso la cassa integrazione è utilizzata per garantire un reddito minimo di sopravvivenza anche a lavoratori di aziende che stanno per chiudere se non già chiuse e rase al suolo. Restringendo lo sguardo alla Lombardia, tra i primi 4 mesi del 2009, quando non si parlava d’altro che di crisi, e lo stesso periodo di quest’anno, le ore di cassa integrazione sono aumentate del 142% (e quelle di cassa straordinaria del 345%) e i licenziamenti sono stati il 16% in più. Anche se si parla di “ripresina” per ordinativi e produzione, i lavoratori continuano a pagare la crisi fino all’ultimo centesimo.
La provincia di Pavia ha visto nell’ultimo anno un leggero calo della cassa ordinaria, ma solo perché in molti casi quella a disposizione è terminata, come risulta chiaro se si guarda all’aumento di quella straordinaria: dalle 58mila ore dei primi 4 mesi dell’anno scorso a 1milione e 236mila ore nei primi 4 mesi di quest’anno: +2000%. E un +500% per quanto riguarda la cassa in deroga, che interessa soprattutto i lavoratori di imprese artigiane. Il numero dei licenziamenti non sta scendendo e attualmente sono circa 14mila i disoccupati in provincia, su meno di 500mila abitanti, mentre si calcola che la cassa integrazione riguardi in questo momento quasi il 5% dei lavoratori dipendenti privati. Sappiamo che il livello più alto nella disoccupazione deve ancora essere toccato e molti dei lavoratori che attualmente hanno la cassa integrazione agli sgoccioli rischiano il posto: le imprese, esauriti gli ammortizzatori sociali, se continuano la produzione, quasi sempre tagliano gli organici.
Qua sotto segnaliamo le situazioni che stanno affrontando gli operai di alcune imprese della provincia di Pavia: si tratta solo di pochi casi, a volte quelli che per il numero di lavoratori coinvolti e per l’evolversi delle vertenze hanno “fatto notizia” almeno sulla stampa locale nelle ultime settimane. Ma situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno in tutta la provincia.
La Strides Italia di Corana (ex Diaspa, 40 anni di attività nel settore chimico-farmaceutico) è stata messa in liquidazione e i 90 dipendenti sono in cassa straordinaria da marzo. Da quando lo stabilimento è stato acquisito dall’indiana Strides Arcolab, gli investimenti sono continuamente scesi fino alla decisione della multinazionale di non produrre più a Corana. Il liquidatore avrebbe ricevuto alcuni possibili interessamenti di altre società, ma fino ad ora sono solo voci.
Anche la Friggi di Motta Visconti è stata messa in liquidazione dalla proprietà. Da aprile, i 56 dipendenti si trovano con davanti un anno di cassa integrazione straordinaria e gli stipendi del 2010 ancora da ricevere.
È stata decisa ormai da un anno la liquidazione dall’assemblea dei soci della Pan-pla di Gambolò: anche in questo caso una lunga storia di produzione alle spalle e ancora un anno di cassa integrazione a 770 euro mensili per gli 81 lavoratori. Da due anni la cooperativa era tornata autonoma e si era trovata senza un capitale dopo la decisione del gruppo Frati di Mantova di non produrre più a Gambolò e dopo che era naufragato un possibile accordo con la multinazionale portoghese Sonae.
Situazioni diverse ma lo stesso rischio di perdere il posto di lavoro interessano alcune altre importanti imprese lomelline: la Cablelettra (da un anno in amministrazione controllata, 200 lavoratori in cassa straordinaria con la speranza che si faccia avanti un grande gruppo dell’auto ad investire nella loro fabbrica), la Sigma (in 93 in cassa straordinaria), la Atom e la Fiscagomma di Vigevano, con 83 esuberi già annunciati nella prima e 46 nella seconda.
Il primo giugno sarà formalmente soppresso l’arsenale di via Riviera a Pavia: l’ennesima chiusura in città e 220 posti di lavoro in fumo. Non è proprio una novità, la vicenda andava avanti da anni tra promesse dai ministeri e progetti di riconversione, che non hanno portato a nulla. Molti degli operai e impiegati sono già stati in parte trasferiti e sparpagliati in altri enti, sia del genio militare sia civile, tra il milanese e il piacentino. Sui 90 rimasti, 35 resteranno temporaneamente a gestire l’ufficio “stralcio”, mentre gli altri sperano si concretizzino le promesse di essere ricollocati tra vari uffici e amministrazioni.
Avrebbe dovuto riaprire a maggio l’ex Casamercato di Cava Manara, ma i lavori di manutenzione non sono ancora finiti e a giugno finirà invece la cassa straordinaria per i 75 dipendenti (che aspettano ancora i soldi da dicembre in poi) mentre Grancasa non ha ancora iniziato le assunzioni previste dagli accordi.
Tra le tante, segnaliamo anche due importanti questioni aperte in Oltrepò: si tratta dell’ex Finbieticola di Casei Gerola e della Tanino Crisci di Casteggio.
Il primo caso va avanti ormai da anni: dopo la chiusura avvenuta nel 2006 dello zuccherificio e dopo tutte le promesse istituzionali di una possibile riconversione dell’area, a inizio maggio arriva la notizia dello slittamento anche del progetto di una centrale elettrica alimentata a fibra di sorgo, che potrebbe dare un lavoro almeno a parte dei 40 ex dipendenti. Per loro i tempi sono fondamentali perché a fine anno, alla fine della cassa integrazione, già rinnovata, si troveranno senza un reddito. Nell’assemblea tenuta il 12 maggio si è parlato di iniziare uno sciopero della fame per fare pressione sulla Provincia e le altre istituzioni che fino ad ora hanno solo saputo promettere. Vogliono risposte concrete anche i 39 dipendenti del calzaturificio Tanino Crisci, che producono le scarpe di lusso esposte nelle vetrine di via Montenapoleone a Milano come a Parigi o New York. A marzo era stata annunciata la mobilità per tutti da fine maggio, tranne per 6 degli impiegati, al termine della cassa integrazione, mentre alcuni operai erano ancora al lavoro per esaurire degli ordini. Lo stabilimento è ora del tutto fermo dal 19 maggio, ma per volontà dei lavoratori: aspettano il pagamento degli ultimi stipendi e un incontro, saltato più volte, tra Majorana, manager della Gulf Finance & Investment, società che gestisce il marchio, e Alfonso Crisci, ancora proprietario della struttura. L’incontro potrebbe portare a un accordo su un costo minore per l’utilizzo dello stabilimento e quindi favorire la ripresa della produzione a Casteggio. Di fronte allo sciopero e alle voci di una possibile delocalizzazione in Cina, Majorana ha dichiarato che si è in una fase di “riorganizzazione” (termine che spesso è sinonimo di tagli al personale…) ma che la produzione non si sposterà. Lo sciopero al momento continua, in attesa degli stipendi arretrati e di risposte ufficiali sulle questioni aperte.

NESSUN MURO PUO' FERMARE IL BARATTOLO (n°4 - giugno 2010)


Le elezioni comunali del giugno 2009 portano a palazzo Mezzabarba Alessandro Cattaneo, un giovane che sotto l'ala del deputato Giancarlo Abelli guiderà la giunta PDL-Leghista di Pavia. Come sbandierato in campagna elettorale, una delle prime mosse è quella di cercare di mettere a tacere la scomoda voce che per 12 anni ha lottato contro le ingiustizie sociali e le speculazioni in città, quella del Centro sociale autogestito Barattolo.
Così a settembre iniziano le pressioni: viene arbitrariamente imposta la cessazione immediata di tutto il palinsesto musicale; e per via informale comunicano che la cacciata dallo stabile di via dei Mille sarebbe stata solo una questione di tempo, al più a fine maggio allo scadere della convenzione. Da allora tutte le componenti già presenti, insieme ad altri gruppi o singoli solidali hanno dato vita ad un organismo assembleare unitario in grado di prendere decisioni importanti in questo momento difficile.
Dalla tre giorni organizzata a settembre partono nuovi progetti, tra cui molto risalto è ottenuto dalla campagna "Libera musica in libero spazio". Questa mira a riportare i concerti al C.S.A. e rompere così di fatto il silenzio imposto, ripartendo con un’iniziativa di alto spessore culturale in città come la VI edizione del "Concorso Sconcertante". Le quattro serate eliminatorie e la finale hanno riscosso un evidentissimo successo, sia per gli spettatori, sempre molto numerosi, sia per le band giovanili che hanno dimostrato un notevole entusiasmo.
La risposta della giunta, ferita dal successo dell'iniziativa, non tarda ad arrivare. Impugnando rilevamenti fatti dall'Arpa in alcune serate, emette un'ordinanza di immediata cessazione di attività musicali dalle ore 22 alle ore 6. Quello che sconcerta è che lo sforamento massimo nelle due rilevazioni ammonta a 4 e 10 decibel, a dimostrazione della pretestuosità di questo provvedimento (per intenderci il respiro umano a circa 20 cm ammonta a 20 decibel). Data ormai l'impossibilità di avere un benchè minimo dialogo con questa giunta, l'assemblea opta per dare un forte segnale politico: il Barattolo sarebbe diventato un centro sociale occupato.
Esattamente 2 giorni dopo la revoca delle firme dalla convenzione, avviene il primo confronto diretto di piazza: è il 25 Aprile. Le istituzioni comunali che avrebbero dovuto commemorare i 65 anni dalla liberazione in Italia dal nazi-fascismo ripudiano apertamente i valori dell'antifascismo e vorrebbero semplicemente una equiparazione tra i morti partigiani e repubblichini, per non parlare del vicesindaco Centinaio che dichiara che il 25 aprile "preferisce andare a fare una grigliata" piuttosto che sprecare tempo. La contestazione sorge quindi spontanea e l'intervento di Cattaneo viene interamente coperto dai presenti, che intonano canti partigiani e che invece applaudono fortemente l'intervento successivo di una docente di storia.
Il giorno successivo Cattaneo emette un'ordinanza di sgombero, resa effettiva martedì 4 maggio. In quella mattina molto piovosa, un ingente presidio delle forze dell'ordine sequestra dallo stabile diverso materiale, tra cui diversi apparecchi elettronici, lasciandoli colpevolmente rovinare per ore sotto la pioggia, per poi erigere un osceno muro davanti all'ingresso del centro.

Una forte ondata di indignazione pervade tutta la città. Uno sgombero inaspettato e così arrogante è malvisto da tutti, giovani e non giovani, persino da chi quel centro non l'ha mai frequentato. A meno di 10 ore dalla sconvolgente notizia più di 300 persone si ritrovano in piazza della Vittoria per un corteo, rabbioso verso un atto così inopportunamente violento, che si conclude in aula del '400, dove ha luogo la serata universitaria prevista per lo stesso giorno al Barattolo.
Nei giorni successivi si è costruita, anche insieme ad altre realtà lombarde, la piattaforma per una manifestazione contro lo sgombero e per rilanciare in tutta la città i valori che hanno sempre animato questo centro sociale. Sabato 8 maggio più di 1000 persone hanno sfilato in difesa degli spazi sociali, con un'idea molto chiara: nessun muro potrà mai fermare le idee, se togliete il centro sociale ci troverete in città.

Invitiamo tutti quanti a seguire gli sviluppi di questa vicenda e di partecipare alle numerosissime iniziative che sono presenti in città, perchè il Barattolo è molto di più di quattro semplici mura.

L'URANIO NON FA EROI (n°4 - giugno 2010)


Ancora a parlare di omicidi bianchi. Ancora a parlare di lavoratori uccisi dal padrone. Solo che in questo caso il padrone è lo Stato e il lavoro è “portare la pace”.
È sotto gli occhi di tutti, anche valutando i recenti accadimenti in Afghanistan e la successiva gestione mediatica della questione, come allo Stato faccia comodo avere dei morti tra le fila dei propri soldati. Soldati che ha mandato in giro per il mondo a proteggere gli interessi economici delle multinazionali che sponsorizzano le campagne elettorali del governo di turno, o per accontentare il grande capo Yankee. Che i morti al fronte non debbano essere troppi si intende, bisogna evitare che la gente cominci a chiedersi se ne vale la pena. Serve solo un contenuto numero di perdite che risvegli quel sano sentimento patriottico che compatta la nazione intorno al cordoglio per la vittima, per la famiglia della vittima, per gli amici della vittima, i compaesani della vittima, il cane della vittima… Lo stesso sentimento patriottico che serve a mandare la gente a votare o semplicemente ad accettare ed interiorizzare la presenza dello stato.
Non tutte le morti in divisa sono però uguali. Non tutti ricevono l’onore del funerale di stato con il tricolore sopra la bara ed i servizi dei telegiornali. Per le centinaia di morti e le migliaia di malati vittime dell’Uranio impoverito c’è solo abbandono ed insabbiamento.

L'uranio impoverito è ottenuto come scarto del procedimento di arricchimento dell'uranio. L'estrazione avviene a partire dall'uranio contenuto in minerali naturali o dal combustibile irradiato prodotto dalle centrali nucleari. Utilizzato a partire dall’intervento della NATO in Kosowo per la produzione di proiettili esplosivi anticarro, l'uranio impoverito è un metallo pesante radioattivo. Un contatto diretto e prolungato con munizioni o corazzature all'uranio impoverito può causare effetti clinici nefasti. Presenta il fattore di rischio maggiore se direttamente inalato, ingerito, o posto a contatto di ferite. La tossicità chimica dell'uranio impoverito rappresenta la fonte di rischio più alta a breve termine, ma anche la sua radioattività può causare problemi clinici nel lungo periodo (anni o decenni dopo l'esposizione). Solo in Kosovo gli americani e i loro alleati hanno sparato 31 mila proiettili "speciali" e scaricato l’equivalente di dieci tonnellate di uranio impoverito, hanno sperimentato con disinvoltura armi in grado di perforare come burro la corazza di un tank, sprigionando nell’impatto radiazioni e polveri nocive.
Dopo i primi episodi di morte sospetta e le denuncie televisive che ne sono seguite, il 22 dicembre 2000 è stata insediata una commissione, presieduta dal Prof. Franco Mandelli, con il compito di accertare tutti gli aspetti medico-scientifici dei casi emersi di patologie tumorali nel personale militare impiegato in Bosnia e Kosovo. La popolazione studiata dalla commissione è quella composta dai militari che dal dicembre 1995 al gennaio 2001 hanno compiuto almeno una missione in Bosnia e/o Kosovo. Le popolazioni degli abitanti di queste regioni, non sono quindi state prese in considerazione. I risultati di questo primo studio sembrano smentire il legame diretto tra il comparire delle patologie nei militari e la loro esposizione all’Uranio impoverito. Questa conclusione, definita parziale dalla stessa commissione che la stilò, basandosi su dati obsoleti tenta di fatto di insabbiare la questione smentendo l’evidente relazione tra l’Uranio impoverito e il manifestarsi di forme tumorali.
Tre successive relazioni della commissione Mandelli (l'ultima del 2002) sono arrivate a concludere che, rispetto al numero "statisticamente atteso", le vittime nel gruppo di riferimento (i militari che hanno preso parte alle varie operazioni nelle aree incriminate) sono quattro volte superiori. La commissione, però, pur auspicando ulteriori approfondimenti, continua a non trovare un nesso tra la presenza dell'uranio impoverito e i casi di tumore verificati. Una successiva commissione d'inchiesta è andata oltre sostenendo che i dati della Mandelli erano probabilmente sbagliati e sottostimati. Oggi non ci sono praticamente più dubbi sull'esistenza di un nesso tra i casi di decesso e l’esposizione all’Uranio Impoverito. Sul numero delle vittime l'incertezza è ancora totale: si oscilla, a seconda delle rilevazioni, tra i 77 e i 160 morti, e tra i 312 e i 2.500 malati.

La riflessione conclusiva la voglio spendere per definire il concetto di omicidio bianco. Il datore di lavoro che per il suo guadagno espone i dipendenti a situazioni che ne causano la morte, è moralmente e politicamente responsabile di ciò. Questo vale per tutti i lavori, anche quelli che meno ci piacciono, anche quelli dove si imbraccia un fucile e si spara. Parlare di omicidi bianchi riferendosi ai militari, ovvero a persone che fanno dell’omicidio la propria professione, sembra decisamente paradossale ed infastidisce molte sensibilità. Ma ciononostante, a vivere questo paradosso sulla pelle sono quelle persone che, a causa della loro ricattabilità sociale, prendono la decisione moralmente inaccettabile di diventare al tempo stesso assassini di professione e carne da macello per gli interessi dei soliti porci.

DAI SOLDI DEI POTENTI AL SANGUE DEI POPOLI. Boicottare le banche che finanziano imprese produttrici di morte (n°4 - giugno 2010)


Imprese come la “Beretta holding spa”, una delle principali aziende italiane leader al mondo nella produzione di armi da fuoco. Il vice presidente di questa azienda, Pietro Gussalli Beretta, siede nel consiglio di amministrazione di UBI Banca (Unione Banche Italiane), che nel 2009 ha investito 1 miliardo e 231 milioni di euro per conto delle industrie italiane che esportano armi nel mondo.

Un altro istituto bancario che contribuisce a questo sporco gioco è la Deutsche Bank, che versa 913 milioni di euro. Segue a ruota la BNL - BNP Paribas (il gruppo italo-francese) con 904 milioni di euro. Tra i gli istituti italiani che finanziano l’esportazioni di armi ci sono: Gruppo Intesa San Paolo, che versa 186 milioni, a cui andrebbero aggiunti anche i 47 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia; il gruppo Unicredit che versa 146 milioni di euro, Banca Antoniana Popolare Veneta 8.960.000 euro, Banca Cooperativa della Valsabbia 5.585.447, Gruppo BPM (Banco Popolare di Milano) 4.782.156 euro, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza 546.905 euro, BPER (Banco Popolare dell’Emilia Romagna) 424.963 euro, Banca Popolare FriulAdria 259.090 euro, Banco di Sardegna 119.110 euro, Banca Credito Cooperativo di Bientina 17.300 euro.

Spesso le persone non sono coscienti, o fanno finta di non sapere di questi traffici di armi che vengono fatti con i loro risparmi, che investono convinti che i loro soldi siano al sicuro. Tutto questo è un’illusione, caro cliente, la verità è che questi istituti di credito sono degli aguzzini senza pietà, speculatori che campano sulle spalle della gente.

Il gruppo Intesa San Paolo intrattiene rapporti economici con uno dei maggiori produttori di bombe a grappolo, la Lockeed Martin: il gruppo bancario ha contribuito con un prestito pari a 1.5 miliardi di dollari con scadenza a luglio 2012.
Sempre Intesa San Paolo ha contribuito con 52.5 miliardi di dollari al cartello (“syndicate”) composto da 31 banche che generano prestiti ad aziende come: Alliant Techsystems Atk, L-3 Communications, Lockheed Martin e Textron, con sede negli Stati Uniti, Hanwaha e Poongsan con sede in Corea del Nord, Roketsan con sede in Turchia e in fine la Technologies Engineering a Singapore. Fanno parte di questo “syndicate” il colosso bancario HSBC con sede a Londra, che contribuisce con un investimento pari a 650 miliardi di dollari, seguito da Goldman Sachs, Merril Lynch, Deutsche Bank, Jp Morgan, Citigroup, Barclays, Bank of America e Intesa San Paolo.

Le bombe a grappolo, che vengono costruite grazie agli investimenti di queste banche, sono ordigni che possono essere considerati armi di distruzione di massa. Questi marchingegni di morte sono composti da un contenitore che trasporta al suo interno da 200 a 250 piccoli ordigni. Un bombardiere può portare fino a 30 contenitori: ciò vuol dire che è in grado di colpire anche 7500 volte un territorio nello stesso momento. L’area colpita da questo ordigno può avere un perimetro ovale di 1500-2000 metri per 500-700 metri. Questa arma causa le sue vittime non soltanto durante i bombardamenti, ma porta un altro grosso problema: gli ordigni inesplosi, che spesso vengono raccolti da bambini attratti da questi contenitori simili a una lattina colorata, che vista con gli occhi di un bambino può sembrare un giocattolo, ma basta solo toccarli per farli scoppiare e la loro esplosione causa gravissime mutilazioni o perfino la morte.

È arrivato il momento di dire basta a questi fascisti in doppiopetto. Boicottiamo le banche che finanziano la guerra. Mettiamo fine a questo fiume di sangue.

MODENA, 19 GIUGNO 2010, UN CORTEO NAZIONALE CONTRO I C.I.E. Pubblichiamo l'appello lanciato dal "Coordinamento per il 19 giugno" (n°4 - giugno 2010)


All’interno di un percorso di lotta che parte da lontano e che si è andato intensificando negli ultimi mesi qui a Modena e a Bologna, in Italia e in generale in Europa, con scioperi della fame, rivolte, fughe dei reclusi, e presidi, presenze nelle città, azioni di sostegno dei solidali, promuoviamo un corteo a Modena per il 19 giugno 2010.
Contro i Cie, perché sono i lager odierni in cui vengono rinchiusi gli immigrati senza le carte in regola per vivere nei paesi dei ricchi. Contro le deportazioni, chiamate spudoratamente rimpatri. Contro la funzione di questi centri, che è quella di tenere sotto minaccia della privazione della libertà individui da annientare e rendere quindi disponibili per lavori da schiavi. Contro chi li gestisce, perché lucra sulla miseria, come la Croce Rossa e la Misericordia che si presentano dissimulati sotto un’aurea caritatevole o le Cooperative della Lega Coop che si spacciano come promotrici della mutualità e della solidarietà. Contro tutte le aziende che si arricchiscono con appalti per fornire servizi all’interno come la Concerta spa e la Sodexo. Contro tutti gli uomini in divisa che, nell’adempimento del loro “dovere” di carcerieri, nei Cie massacrano e stuprano. Contro il Cie di Modena, gestito dalla Misericordia di Daniele Giovanardi che, attraverso i suoi metodi da piccolo dittatore fatti di propaganda da un lato e asservimenti, soprusi, divieti, restrizioni e isolamento praticati sui reclusi dall’altro, sperimenta un modello esemplare per altri Cie in Italia. Contro Frontex, l’agenzia che gestisce e organizza le deportazioni per i paesi europei e controlla le frontiere. Contro la propaganda razzista. Contro il silenzio complice dei «bravi cittadini».
Insieme a chi brucia i Centri di detenzione. Insieme ai rivoltosi di Rosario. Insieme a chi non si arrende e lotta con i mezzi che ha a disposizione: rivolte, scioperi e fughe. Insieme a chi non gira la testa dall’altra parte
Fuori i reclusi dai Cie
Fuori i Cie dal mondo


Il circuito dello sfruttamento
I Cie, ex Cpt, sono luoghi di detenzione amministrativa sottoposta all’autorità di polizia quindi, da un punto di vista giuridico, propriamente equiparabili ai Lager nazisti. Istituiti dalla sinistra nel 1998 e condotti a compimento dalla destra, sono parte integrante e costituente di un meccanismo perfettamente oliato che alimenta il circuito dello sfruttamento. La politica razzista, con le sue leggi e la sua propaganda, incalza l’immigrato schiacciandolo nell’angolo per renderlo sfinito e umiliato schiavo, un pezzo utile da mettere a profitto nei tempi della produzione o in quelli del business del “divertimento” sessuale. Nei Cie vengono rinchiusi immigrati senza il permesso di soggiorno, ma non solo. Ci sono persone che hanno richiesto l’asilo politico, che hanno lavoro e carte in regola ma con vecchi decreti di espulsione sulle spalle, che hanno finito di scontare una pena in carcere e donne, tante donne, in molti casi vittime della tratta. Gente che è sfuggita da guerre, persecuzioni, maltrattamenti e prostituzione. E fame. Guerre e fame che il capitalismo occidentale produce per continuare indisturbato a dominare e a razziare il mondo.
Resi clandestini per la sventura di arrivare da paesi disgraziati, sotto laminaccia costante e continua di essere internati e deportati, di venire fermati per strada, negli autobus, nei treni e trattati come bestie, di venire separati dagli affetti più cari, di finire nuovamente nelle grinfie di sfruttatori e “protettori” senza scrupoli, vivono in balia della malvagità di chi esegue gli ordini del potere.
Il meccanismo dello sfruttamento per funzionare ha bisogno di un braccio armato fatto non solo di sbirri e militari, ma anche di controllori di autobus e treni che, solerti, scovano immigrati clandestini e li consegnano nelle mani delle autorità. Necessita di un ambiente predisposto ad accogliere tutte le possibili misure di controllo, militari nelle città compresi, quindi la propaganda razzista sostenuta dall’ossessione securitaria entra in campo per alimentare le paure eliminando il rischio che qualcuno solidarizzi o manifesti repulsione per metodi così spietati e disumani. È così che si forma un esercito di schiavi circondati da una massa grigia di esseri collusi, insensibili e meschini.
Il secondo termine, espulsione, richiede a sua volta che venga predisposto un meccanismo di attuazione. Centri di detenzione per immigrati sono presenti in tutta Europa e nel 2004 è stata istituita Frontex [Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne] che, tra le altre, ha la funzione di «fornire agli stati membri il sostegno necessario per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte». Non è facile nemmeno per gli stati deportare, ci vogliono accordi con i paesi terzi, tanto che spesso vediamo presidente del consiglio e ministri italiani correre smaniosi in giro per il mondo alla ricerca di accordi con Libia, Ghana ecc. Ma ora Frontex è pronta per il suo compito, ha a disposizione aerei charter noleggiati con pilota compreso per le deportazioni che rastrellano gente dai vari centri di detenzione facendo scali in diverse città europee. E si tratta di un intervento prezioso per il sistema rimpatri anche perché sugli aerei di linea troppo spesso i comandanti hanno dovuto far scendere i deportati, e la loro scorta, a causa delle proteste loro o di altri passeggeri, scioccati nel vedere gente in manette e maltrattata.

Le condizioni nei Cie e le lotte recenti
Chiunque segua le lotte contro i Cie sa che non passa giorno senza che arrivino notizie di soprusi e maltrattamenti, che i reclusi lamentano un disinteresse totale rispetto a qualunque genere di necessità, perfino di cure mediche anche in presenza di malattie o ferite gravi. Si sa che il cibo è pessimo, scarso, condito con psicofarmaci e a volte pure pieno di vermi o scarafaggi. Che gli internati non hanno alcun diritto e che per loro è praticamente impossibile uscire anche se hanno casa, lavoro, coniuge italiano e figli. Che le forme di protesta vengono spesso schiacciate dalla repressione e dai manganelli e che le pene per chi reagisce sono sempre alte. A volte arrivando persino alla morte, come nel caso di uno dei rivoltosi del Cie di Milano. Che gli operatori dei Cie e le guardie si rivolgono agli immigrati con violenza e disprezzo. Che i ricatti sessuali contro donne e trans sono quotidiani. Che gli stupri da parte delle guardie, e di chissà chi altro, sono un rischio costante e troppe volte una realtà. Che quando le violenze vengono denunciate, come nel caso di Joy e di Preziosa, le ritorsioni sono terribili e interminabili. Che i reclusi vengono spesso rispediti in paesi di cui non sanno più nulla e che in certi casi non sono neppure quelli di provenienza. Si potrebbe continuare all’infinito con esempi di soprusi e palesi ingiustizie, di esasperazioni che portano a pesantissime forme di autolesionismo fino ad arrivare in alcuni casi al suicidio.
Ma è anche vero che le tensioni e le ribellioni dentro tutti i centri di detenzione in Italia e in Europa intera non si placano. La gioia per le fiamme di Vincennes o di Lampedusa non si spegne e l’esempio recente di 84 donne in sciopero della fame a Yarl’s Wood in Inghilterra dà forza e speranza. Senza dimenticare l’indomabile sciopero della fame che ormai da marzo prosegue a staffetta, con il forte sostegno dei compagni fuori, al Cie di Milano.
In Italia, dall’approvazione del nuovo Pacchetto Sicurezza nel luglio 2009 con il quale è stato introdotto il reato di clandestinità e il prolungamento fino a sei mesi del periodo di detenzione nei Cie, le ondate di protesta, le lotte all’interno dei lager della democrazia e fuori non si sono mai fermate. In alcune occasioni la determinazione e la rabbia dei reclusi hanno portato a coraggiose rivolte e fughe, pensiamo alle rivolte dell’estate scorsa al Cie di via Corelli a Milano, a quella di Modena dove i reclusi hanno reso inagibili diversi padiglioni, alle continue fughe dal Cie di Torino, alla rivolta e al fuoco di Ponte Galeria a Roma, a Gradisca, ai tentativi di ribellione di Bari, all’incendio recente al Cie di Bologna.
All’esterno la lotta di tanti si è espressa e continua a esprimersi in Italia, a Parigi, in Belgio, ovunque e in molteplici forme, dai presidi, al sostegno agli scioperi della fame, alle iniziative in città per portare fuori la voce dei reclusi, a tante e ripetute azioni solidali contro i responsabili e gli speculatori che si ingrassano con l’affare Cie.
I Cie esistono ancora, certamente la lotta non ha ancora raggiunto un sufficiente livello di efficacia ma c’è, dentro e fuori.

I Cie di Modena e Bologna
I Cie di Modena e Bologna sono strutture dalle quali, come ci hanno fatto sapere i reclusi, «tutti sanno che non si esce»; sono carceri speciali per immigrati le cui condizioni interne sono particolarmente dure e disumanizzanti, i regolamenti applicati totalmente arbitrari e funzionali alla castrazione di ogni forma di protesta, di rivendicazione di libertà e di comunicazione con l’esterno fin dal principio. Non si possono tenere i cellulari che vengono sequestrati all’entrata, tranquillanti vengono somministrati nel cibo a colazione, pranzo e cena, e abusi e violenze da parte di ispettori di polizia, ricatti e insulti sono all’ordine del giorno. Come se non bastasse in questi centri una buona percentuale di detenuti è persino in possesso del permesso di soggiorno. Chi viene internato nonostante sia “regolare” non è un malcapitato a caso e raro, bensì chiunque abbia avuto un decreto di espulsione anche se riferito a un periodo per il quale il reato è già stato indultato. Ma non importa, «loro cliccano sui computer e se risulta qualcosa che non torna ti portano dentro anche se hai un lavoro o se pensavi di dover solo completare delle pratiche di regolarizzazione». Dai Cie di Modena e di Bologna non si esce, non solo per militari, sbarre e filo spinato, ma anche perché l’ampliamento del raggio di persone internabili e il prolungamento dei tempi di detenzione fruttano moltissimi soldi ai gestori di queste strutture, ovvero alla Confraternita delle Misericordie presieduta da Daniele Giovanardi. Questa associazione cattolica guadagna 75 euro al giorno per ogni recluso del Cie di Modena e 72 per quello di Bologna. Sarà per questo che alcuni reclusi ci dicono che non vengono nemmeno rimpatriati, anche quando lo vorrebbero?
Il 17 aprile, dopo mesi di silenzio imposto e di ribellioni stroncate, 50 reclusi tra uomini e donne del Cie di Bologna sono entrati in sciopero della fame e, successivamente, si sono rivoltati dando fuoco a parte della struttura, causando 50.000 euro di danni. Un bel regalo per chi ha scelto di fare dell’internamento degli immigrati un lucroso business!
Nei giorni successivi, i giornali locali interessati solo quando la notizia è eclatante e fa vendere ma mai nella quotidianità delle sopraffazioni patite da chi sta dentro questi infami luoghi, hanno diffuso la notizia di diversi episodi avvenuti tra Bologna e Modena in relazione a quello che definivano «il presunto sciopero della fame»: una quindicina di solidali sono entrati con volantini e megafono nel tribunale del giudice di pace a Bologna, il giorno dopo un gruppo di persone avrebbe spaccato i vetri della mensa universitaria di Bologna rifornita dalla Concerta Spa che porta i pasti anche al Cie e che circa un mese prima avrebbe subito danni a furgoni parcheggiati in una sua sede ritrovati con le gomme tagliate, infine il 2 maggio un gruppo di solidali ha scelto di interrompere la messa della domenica nel duomo di Modena per smascherare, con volantini e megafono, le responsabilità dei gestori del Cie della città e per rompere il silenzio. Un silenzio che per quanto riguarda il Cie modello di Modena, che per le peculiarità indicate sopra presumiamo sperimentale, è sempre stato totale. Giovanardi ha poi dato dei farneticanti a chi porta in diverse forme la solidarietà agli immigrati reclusi nel suo Cie, dove secondo lui sono trattati con tutti i riguardi e le misericordiose cure necessarie.

Per continuare opportunamente a farneticare indiciamo un corteo contro i Cie e contro la Misericordia che gestisce quelli di Modena e Bologna. Un corteo che miri a far conoscere alla città le nefandezze che quotidianamente avvengono dentro questi lager. Un corteo contro la vergogna delle deportazioni. Un corteo comunicativo che punti il dito contro i responsabili di queste strutture. Un corteo che non deleghi la propria difesa.
Un corteo contro i Cie per noi è un corteo contro l’organizzazione sociale che li ha concepiti e realizzati, non vogliamo bandiere di partiti o di sindacati.
Consapevoli che l’opposizione ai Cie non si esaurisce in scadenze e appuntamenti ma si alimenta giorno per giorno delle proteste e delle rivolte interne e dei contributi solidali di chi lotta al loro esterno, crediamo importante in questo momento lanciare un’iniziativa partecipata per ribadire la natura di questi centri e che i responsabili non sono entità astratte ma collaboratori e approfittatori concretamente esistenti e contro i quali è possibile indirizzare le nostre lotte.

SIRIA. L’ACCORDO GOVERNO-INTEGRALISTI CONTRO LA LIBERTA’ DELLE DONNE. Articolo scritto per Osservatorio Iraq (n°4 - giugno 2010)


Un disegno di legge sul personal status attenta alle libertà delle donne. Seppur ad uno stadio iniziale, i lavori del governo hanno messo in allarme la società civile siriana, in particolare il Syrian Women Observatory (Swo): la minaccia è un collasso della condizione femminile, il rischio un ritorno ad essere proprietà degli uomini.

In un report pubblicato il 27 novembre in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, il direttore del Swo Bassam al Kadi analizza la situazione. Una prima, segreta, proposta di legge sul personal status è stata lasciata cadere dal governo grazie alle polemiche scoppiate in seguito alla diffusione pubblica dei contenuti. La legge proponeva tagli alle libertà femminili, incluso matrimonio ed eredità, tali da provocare lo sdegno tra liberali e moderati. Ora a Damasco si sta lavorando ad una nuova bozza, i cui contenuti divergono nella forma e non nello spirito: la società civile si sta muovendo per bloccarla prima che sia presentata in parlamento.
“Le donne non hanno mai avuto piena eguaglianza davanti alla legge, ma le proposte sul personal status code è una chiara evidenza che i pochi diritti ottenuti sono ora minacciati” afferma al Kadi. E aggiunge: “Le diverse proposte di legge che avrebbero accordato alle donne diritti di base, sono state respinte dal governo”.

Le proposte che si stanno considerando a Damasco nascono dagli integralisti religiosi, supportati dal governo. Secondo lo Swo, negli ultimi due anni la Siria ha fatto dei passi indietro per quel che riguarda i diritti di genere. “ Non è che i progressi nell’integrazione femminile si sono fermati:” –continua al Kadi – “ci troviamo di fronte ad un aumento del potere detenuto dalla lobby che si batte contro i diritti delle donne. Il governo siriano sta lavorando contro coloro che vorrebbero migliorare la condizione femminile”.

Fra i paesi dell’area mediorientale, la Siria è annoverata fra i più progressisti in termini di diritti di genere. Figure femminili occupano seggi parlamentari, posizioni di rilievo all’interno del governo; vi sono donne giudice e ambasciatore; ragazzi e ragazze godono gli stessi diritti nel campo dell’educazione, tanto da suscitare gli elogi delle Nazioni Unite. La presenza della dottrina religiosa non ha mai abbandonato i palazzi di governo, e la sua influenza è oggi in rapida ascesa. “Quando gli osservatori commentano che la Siria è un paese secolarizzato, si sbagliano:” – spiega al Kadi – “non è sufficiente ricevere approvazioni sulla sola base di una situazione migliore di quella del Sudan”.
Le realtà sociali che si impegnano a sensibilizzare sulla questione femminile si scontrano con la resistenza del governo. Che semplicemente non le riconosce, imponendo di fatto un’attività clandestina. Nel 2007 la Ong Social Initiative Society è stata spazzata via dalle autorità, e nello stesso momento il governo ha accantonato un piano educativo nazionale per fronteggiare la violenza domestica. “Sono realmente preoccupato del deterioramento del ruolo della società civile e delle Ong in Siria.” – sostiene al Kadi – “Ritengo possibile che sia questo il punto più debole della questione. La società civile è troppo impegnata ad additare il governo, piuttosto che notare la propria divisione, disorganizzazione ed autorefenzialità”.

All’interno della maggioranza musulmana sono presenti radicali differenze di opinione: da chi propone un modello di impronta occidentale ai gruppi ultra conservatori, che sostengono che le donne non possano lavorare al di fuori delle mura di casa. Fra i pro-occidentali in termini di sviluppo economico, vi è chi ha idee integraliste della società. Il quadro è assimilabile ad un mosaico di etnie e gruppi, senza omogeneità di opinioni della società.

I dati ufficiali conteggiano 50 omicidi d’onore nell’ultimo anno, ma il Swo ne conteggia quasi 200. Le pene per chi commette queste violenze sono più leggere rispetto agli stessi reati compiuti nei confronti di estranei.
Al Kadi è convinto che l’approccio del governo alla materia non è al passo con lo sviluppo della società. “Sono certo – afferma – che le strade siriane sono più aperte nei confronti dei diritti delle donne rispetto al governo. Se così non fosse, non si spiegherebbero livelli così elevati di educazione femminile nelle città. E nelle aree rurali, non ci sarebbe agricoltura senza il duro lavoro svolto dalle donne”. Il problema è la mentalità machista del governo, ed il compromesso con gli integralisti religiosi che contempla revisioni sociali in cambio di riforme economiche.

STORIE DI ORDINARIA FOLLIA (n°4 - giugno 2010)


Premetto che, a mio modesto parere, Gianpaolo Pansa, e tutti gli storici come lui che si autodefiniscono “revisionisti” sono fondamentalmente dei gran buffoni, interessati più a fare propaganda politica che a raccontare la storia per quello che è stata veramente.
Detto questo è necessario, anzi, doveroso, far luce su alcuni momenti della storia del nostro paese che hanno avuto un’importanza rilevante, sopratutto per le conseguenze che ne sono derivate.
La XII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione Italiana cita testualmente: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.» Cosa giusta, senza alcun ombra di dubbio, se non fosse che alle prime elezioni politiche del '48 un partito dichiaratamente fascista, l'MSI era candidato, e per di più, per diverse legislature fu un importante – e ben voluto – alleato dell'allora Democrazia Cristiana. La Dc, per conto suo, non si era fatta mancare nulla: Amintore Fanfani, uno dei massimi esponenti del partito cattolico, non che futuro Presidente del Consiglio, era stato fra i firmatari del Manifesto della Razza pubblicato da Mussolini nel '38.
Cosa buona e giusta era stata la cattura e l'incarcerazione di migliaia di esponenti fascisti dell'ex Repubblica Sociale Italiana, ad opera sia di partigiani, ma anche di tantissimi cittadini che, stufi per le angherie subite in vent'anni – più due – di fascismo, avevano collaborato coi partigiani per consegnare alla giustizia i repubblichini ancora in libertà.
È questo il momento fondamentale, l'anello mancante per poter capire una serie di questioni che, ancora oggi, sono presenti nella nostra società ma hanno la loro nascita e sviluppo in quegli anni.
Il 22 giugno del '46, l'allora Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, promulgò la tanto famosa e discussa amnistia. Con essa, tutti coloro che avevano commesso reati comuni e/o politici vennero rilasciati, praticamente in massa – grazie anche ad una serie di sentenze della Cassazione che allargarono maggiormente i paletti posti dal ministro Togliatti – permettendo in questo modo l'impunità di migliaia di fascisti che avevano commesso gravi reati durante la guerra civile. In poche parole all'Italia è mancato il suo processo di Norimberga, il suo processo di Tokio, un processo che sancisse la condanna ferma e decisa del fascismo in quanto tale.
Al suo posto è avvenuta una riabilitazione legale – e morale – dei criminali fascisti e, di conseguenza, anche di quelle migliaia di criminali minori che sono stati regolarmente reinseriti non solo nella società ma anche nell'apparato statale.
A questo punto non è più un caso che nel 1960 su 62 questori, 60 fossero entrati in servizio durante il ventennio, e che un numero non indifferente di prefetti, commissari di polizia, ufficiali dell'esercito, membri dei servizi segreti, del Ministero degli Interni e della Difesa fossero ex fascisti, ripuliti istituzionalmente.
Non è più un caso che durante gli anni di piombo alla dirigenza dei servizi segreti, della polizia e delle forze armate ci fossero ex appartenenti al partito fascista, ne tantomeno che le indagini e le denunce fossero inizialmente rivolte sempre a esponenti della sinistra eversiva.
Allo stesso modo in cui negli anni '20 i fascisti della prima ora vennero utilizzati dagli agrari e degli industriali per contenere le rivolte e gli scioperi di operai e contadini, così negli anni '60 e '70 vennero utilizzati dai poteri forti per indebolire i movimenti studenteschi ed operai.
Volendo concludere, non è nemmeno un caso se ai giorni nostri gruppi neofascisti come Forza Nuova, piuttosto che Casapound vengano manovrati, o meglio, utilizzati, dai partiti della destra per alimentare un clima di terrore nuovo, ormai diverso da quello degli anni '20 e '70. Insomma, saranno cambiati i tempi, e con essi i metodi, ma la sostanza in sé non è cambiata: la mancanza di un atto formale e, perché no, anche giudiziario, nei confronti delle organizzazioni fasciste nel nostro paese, unito alla mancanza di una cultura antifascista vera, ha permesso loro di poter continuare a sopravvivere, con alti e bassi, al tempo e ai cambiamenti.

martedì 25 maggio 2010

SERATA DI AUTOFINANZIAMENTO CRISI ECONOMICA IN GRECIA

SERATA DEDICATA ALLA CRISI ECONOMICA IN GRECIA
MERCOLEDI 26 MAGGIO, ORE 18e30, OSTERIA SOTTOVENTO (via Siro Comi, Pavia)
per capire perchè la crisi ha colpito proprio la Grecia, con tutte le conseguenze economico-sociali che stanno opprimendo il popolo greco, per comprendere il perchè della crisi fino ad arrivare al deficit del debito pubblico.
Interverranno alla serata:
Alberto Botta
Orsola Costantini

domenica 9 maggio 2010

Rischia di chiudere Osservatorio Iraq

Nato nel 2003 come progetto dell'associazione “Un Ponte Per ...” con il proposito di offrire informazioni in merito agli sviluppi della guerra in Iraq, Osservatorio Iraq rischia di chiudere i battenti a fine maggio per ragioni finanziarie.
Nel corso degli anni la testata telematica, disponibile gratuitamente sul sito www.osservatorioiraq.it, ha allargato la copertura ad altre regioni dell'area mediorientale, arrivando ad occuparsi anche di Iran, Turchia, Siria, Kurdistan, Libano e Palestina.
Obiettivo, offrire in lingua italiana notizie non coperte da altri mezzi d'informazione tanto cartacei quanto virtuali. Monitorando giornali, riviste e siti internet in inglese, arabo ed ebraico, nonché sfruttando contatti sul posto, Osservatorio Iraq ha cercato di colmare un vuoto informativo che costringe gli italiani ad accontentarsi di notizie superficiali e stentate, quando non del tutto assenti o “manovrate”.
Da qualche mese Osservatorio Iraq dispone di un canale you tube sul quale diffonde settimanalmente un “telegiornale” (più propriamente definito video news-letter) informativo sull'area mediorientale.
Uno strumento indipendente, gratuito e a disposizione di tutti, con una banca dati alimentata da 7 anni continuativi di attenta attività quotidiana, utile per studenti, tecnici del settore, docenti, ricercatori o per chiunque senta la necessità di andare oltre le notizie di stampa e televisione.
A fine mese è possibile la chiusura, per interruzione di finanziamenti pubblici e privati che fino ad oggi ne hanno permesso l'attività.
E' in corso una campagna di sottoscrizione, visualizzabile sulla home page del sito: un contributo di qualsiasi entità per aiutare l'Osservatorio a continuare i lavori, una somma più sostanziosa (50 euro) per diventare editori della testata.
Comunque andrà, vale la pena conoscere Osservatorio Iraq per constatare quanto serva in questo paese informazione sull'area Mediorientale.

mercoledì 5 maggio 2010

Sgombero Barattolo / Corteo 8/5 h. 15

Martedì 4 maggio il Barattolo è stato sgomberato.
Pubblichiamo il comunicato del csoa

Questa mattina alle sette, entrando di soppiatto come ladri, la polizia di stato e la polizia locale hanno sgomberato, per ordine del sindaco Cattaneo, il Centro Sociale Occupato Autogestito Barattolo: si è trattato di un’azione di forza illegittima e illegale. Parte della strumentazione è stata portata via e riconsegnata ore dopo danneggiata. Il resto è stato lasciato all’interno e murato insieme all’ingresso del Barattolo. Mura e ancora mura, questo solo sanno fare a Pavia. Mura per chiudere gli spazi sociali Mura per chiudere i centri d’accoglienza dopo aver sgomberato illegalmente famiglie migranti. Mura per arricchirsi con centri commerciali, complessi residenziali e lottizzazioni nei nostri parchi. Mura da costruire per giustificare false bonifiche e riciclare denaro pubblico. Mura per reprimere ogni voce di dissenso, come quello di chi il 25 aprile ha contestato il sindaco e questa giunta infarcita di amici, garanti e alleati politici di quei fascisti che imperversano liberamente nelle nostre strade. Hanno provato ad intimidirci con ordinanze, diktat, denunce perché abbiamo avuto il coraggio di smascherare l’operato di questa amministrazione e di quella precedente. Ci vogliono zitti e mansueti per non avere opposizione.
Ci avranno ancora più determinati.
La nostra felicità non si paga, si strappa! Apriamo la breccia!

Sabato 8 maggio ore 15.00 Piazzale della stazione,
Corteo regionale in difesa degli spazi sociali e dei beni comuni