lunedì 19 aprile 2010

SERATA DI AUTOFINANZIAMENTO ALDO DICE

Mercoledi 21 aprile ore 18.30 osteria sottovento
aperitivo di autofinaziamento
serata dedicata alla situazione dei detenuti politici baschi.
per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo basco colpito quotidianamente dai soprusi portati avanti dalle autorita' spagnole e francesi
NO alla tortura,
SI all'autodeterminazione dei paesi baschi.
interverranno alla serata: i membri di E.H.L. (EUSKAL HERRIAREN LAGUNAK) della sezione di Milano

PARTIGIANI IERI PARTIGIANI OGGI

martedi 20 aprile ore 21.00 C.S.A. BARATTOLO (via dei mille130a)Pavia
Verso il 65° anniversario della Liberazione,
in difesa della memoria della resistenza
Parteciperanno:
Partigiani della brigata"Rino Balladore"
Giovanni Vecchio
Umberto Respizzi

Ugo Scagni
storico della resistenza in Oltrepo' pavese

sabato 10 aprile 2010

IL BARATTOLO RESISTE (n° 3 - aprile 2010)

Il Barattolo nasce 12 anni fa quando il collettivo Co.R.S.A.Ri., acronimo che significa Comitato per il Recupero Sociale delle Aree Riciclabili, decide di recuperare un'area dismessa in via dei Mille 130. Questa diventerà la sede del primo centro sociale autogestito a Pavia. In tutti questi anni tante cose sono cambiate, tante persone sono arrivate, altre sono partite, ci sono state collaborazioni con diversissime realtà, alcune già scomparse e molte tuttora presenti sul territorio, ma nell'inevitabile mutamento nel tempo il C.S.A. è sempre stato un punto di riferimento fisso nelle lotte per la difesa politica dei valori sociali come la lotta antifascista, antirazzista, antimperialista, contro il precariato, lo smantellamento della pubblica istruzione e tante altre, fornendo tantissime energie ed un importante supporto, anche logistico.Quest'importantissima esperienza ha vissuto molti momenti tortuosi, ma con l'arrivo a giugno 2009 della giunta Pdl-leghista sono definitivamente cambiate le carte in tavola, perchè fin dalla campagna elettorale è stata chiara la volontà di dimostrare audacia nel chiudere un simbolo importante della città di Pavia in quanto scomodo e rumoroso. E' evidentemente una buona prova di forza per una giunta che insediatasi dopo 13 anni di centrosinistra al palazzo Mezzabarba si ritrova con una faccia di sindaco 30enne con tanta voglia di dimostrare un po' di polso.Poi arriva anche la nomina a vicesindaco di Gianmarco Centinaio, uno dei più grandi nemici politici del Barattolo, leghista dal fazzoletto verde nero, amministratore del gruppo facebook "CHIUDIAMO il Barattolo a Pavia" e che ha dato diverse prove dell'assoluta malafede nei suoi atteggiamenti e comportamenti.In autunno il comune decide di fare la prima mossa: l'assessore Rodolfo Faldini convoca i rappresentanti delle associazioni firmatarie della convenzione per discutere sulla posizione della nuova giunta.Il tanto sbandierato "dialogo" non si è rivelato altro che un incontro con l'assessore che si può brevemente riassumere così: il comune non accetta l'autogestione praticata, per cui da allora in avanti si sarebbe dovuto rispettare ogni minimo cavillo della convenzione con tanto di orari prestabiliti in cui poter entrare ed in cui no, altrimenti immediata recessione della convenzione, che comunque non avrebbero avuto assolutamente intenzione di rinnovare a giugno.L'articolo sulla Provincia pavese dello stesso Faldini del 10-9-09 ci informa che tra i vari diktat c'è il divieto di fare musica dal vivo, cosa non esplicitamente vietata dalla convenzione, ma arbitrariamente decisa dalla giunta e comunicatoci mezzo stampa.Da allora il Centro Sociale per affrontare questa situazione ha iniziato un processo di unificazione di tutte le realtà e singoli che hanno sempre partecipato o si sono sentiti presi in causa, partendo con una tre giorni nei quali elaborando progetti è stato possibile conoscersi meglio e prendere confidenza verso un progetto nuovo. Nel pieno spirito dell'autogestione si è dato vita ad un assemblea gestionale unitaria, che annulla ogni distinzione di appartenenza a gruppi o associazioni, ma crea un unico organismo in grado di prendere decisioni politiche condivise grazie al metodo del consenso.Da questa assemblea nasce un'importante campagna denominata "Libera Musica In Libero Spazio" che con lo slogan "Cannot Stop The Music R-evolution" mira a creare un canale politico per poter riprenderci il diritto di fare musica e così stimolare la cultura dal basso, cosa che ci si aspetterebbe da un qualunque assessorato alle politiche giovanili.Il primo passo è stato quello di stilare un "Manifesto Della Musica Libera" che è stato sottoscritto da più di 60 gruppi del pavese e non, tra cui diversi nomi di spicco come Los Fastidios, Banda Bassotti, Punkreas, Derozer e Biska. Il manifesto firmato è stato consegnato pubblicamente al consiglio comunale previa conferenza stampa alla Provincia pavese. La richiesta era di poter effettuare al C.S.A. Barattolo la VI edizione del "Concorso Sconcertante".Già dalla prima risposta sul giornale dell'assessore Faldini viene alla luce l'impossibilità da parte della giunta di trovare un'altro posto idoneo a fare concerti se non il "Nirvana", unica discoteca a Pavia e dell'assessore Bobbio Pallavicini, ma neanche questo è sufficiente a concedere il permesso di tenere al Barattolo il concorso.Come da programma, il 6 febbraio al Centro Sociale in via dei Mille si tiene comunque il concerto di apertura e presentazione del concorso Sconcertante. In risposta per tutta la serata agenti della digos e delle forze dell'ordine hanno stanziato nel marciapiede opposto all'ingresso, mentre una pattuglia di vigili ha cercato prima di entrare per attestare che il concerto fosse in atto, ma poi ha accettato di rimanere fuori, per evitare di alimentare eventuali tensioni, dopo la verifica che il concerto era in corso e la consegna di un foglio con circa 60 firme di persone che si autodichiaravano responsabili dell'evento: si infrange così il tentativo di far morire il Barattolo di silenzio.La risposta della giunta arriva ancora mezzo stampa, ci annunciano che a giugno è sfratto, cosa già nota ma ora resa pubblica. Probabilmente ad un ignaro lettore apparirà come se noi fossimo i non dialoganti e non i ricattati, ma almeno finalmente si smette di affrontare il caso "Barattolo" come un problema amministrativo, ma diventa a tutti gli effetti un problema politico.A seguire sulla Provincia pavese alle accuse della giunta, ci sono state risposte con articoli e comunicati politici ai quali si sono aggiunti moltissimi ed apprezzatissimi attestati di stima e solidarietà da importanti enti politici, sindacali o illustri singoli.Il corteo in difesa degli spazi sociali indetto dal C.S.A. Barattolo per sabato 20 febbraio vede, in una bellissima giornata di sole, la partecipazione di più di 300 persone, e tantissime rappresentanze politiche. Passando per la città tantissimi interventi hanno toccato tematiche importanti come la speculazione edilizia che mangia le opportunità di una città, il diritto alla formazione e alla diffusione della cultura dal basso, l'antifascismo, il recente aumento delle tasse nell'università di Pavia, il significato sociale di un centro autogestito e quindi l'importanza del Barattolo a Pavia.La sera stessa si è tenuta la prima serata eliminatoria del Concorso Sconcertante e il sabato successivo la seconda, senza più la presenza di agenti che stanziavano di fronte all'ingresso, ma con le immancabili brevi visite di pattuglie di vigili.I due concerti hanno visto una vastissima partecipazione ed un grande entusiasmo sia da parte delle band emergenti sia dal pubblico che ha veramente riempito queste serate. Quest'evidente successo ha portato tante gratificazioni e tanto entusiasmo che sicuramente saranno necessari nel proseguire in questa lotta.Ma non ci illudiamo, d'ora in avanti lo scontro sarà molto duro e serviranno tutti gli sforzi possibili per difendere questo spazio sociale, ma siamo sicuri che esso ormai faccia parte del tessuto sociale di questa città, e che quindi sia importante riunire tutte le energie a disposizione per ribadire che il Barattolo non si sposterà da via dei Mille, che non lasceremo spazio alla desertificazione sociale promossa dalla giunta Abelli-Cattaneo-Centinaio. Tutta la documentazione, la petizione, la rassegna stampa, gli attestati di solidarietà etc. sono reperibili sul sito www.csabarattolo.org

LA CRISI CONTINUA A COLPIRE, GLI OPERAI A PAGARE. Cronaca dalla provincia di Pavia (n° 3 - aprile 2010)

Dicembre 2009
§ Da agosto gli operai della Sigma di Vigevano (in 93 a zero ore) ancora senza una lira della cassa straordinaria
§ Messi in cassa straordinaria 109 lavoratori su 200 alla Atom (meccano-calzaturiero, stabilimenti a Vigevano e Gambolò). Previsti 83 licenziamenti entro un anno
§ Situazione pesante per la Cablelettra, indotto auto, in amministrazione controllata: in 200 in cassa straordinaria (molti a zero ore) in attesa dei piani industriali di Marchionne. Ancora 60 lavoratori a zero ore alla Comez di Cilavegna, 65 su 191 in cassa straordinaria alla Ghibli di Dorno
§ Alla Fiscagomma sarà richiesta la cassa straordinaria e i licenziati non saranno 55 ma 46. I sindacalisti parlano di una “risposta utile e adeguata ai lavoratori coinvolti”. 46 operai dovranno trovarsi un nuovo lavoro in un territorio e in un settore devastati dalla crisi
§ Saranno un migliaio i metalmeccanici lomellini a perdere il posto nel giro di pochi mesi al termine della cassa integrazione. 300 posti già virtualmente persi tra Atom, Fiscagomma, Sigma e Panpla
§ Ancora 6 mesi di cassa per i 75 dipendenti dell’ex Casamercato di Cava Manara. Nei prossimi mesi cominceranno le assunzioni da parte del gruppo Grancasa. Si parla di 110 assunzioni tra Pavia e Alseno, ma i lavoratori in questione sono di più
§ Un muratore pavese che ha rifiutato di dare le dimissioni si vede arrivare a casa qualche giorno dopo il padrone con la lettera di licenziamento, motivata con la situazione economica dell’azienda. L’operaio ritiene la cosa ingiustificata e va in sindacato, dove il licenziamento viene giudicato “nullo e illegittimo”. La sera stessa torna a casa sua il padrone e lo aggredisce a pugni e calci
§ 21 operai licenziati per il fallimento della vigevanese VVM. Negli stessi giorni altre 6 piccole imprese tessili hanno chiuso. In primavera la Mapier potrebbe tagliare 50 posti di lavoro

Gennaio 2010
§ Relazione della prefettura: nel 2009 in provincia 3091 occupati in meno del 2008
§ Tra gennaio e novembre 2009, secondo i dati Cgil, 12milioni 586mila ore di cassa integrazione autorizzate in provincia, +418% rispetto al 2008
§ Il calzaturificio Moreschi di Vigevano avvia la procedura di cassa integrazione straordinaria a rotazione per i 330 dipendenti, dopo mesi di cassa ordinaria. Gli unici a zero ore saranno 5 operai disabili. Altro che “lavorare meno, lavorare tutti, lavorare sempre” come dice Moreschi
§ I 15 soci (di cui 5 disabili) della cooperativa Unione per il lavoro (ex-operai Necchi e Neca) rischiano di essere lasciati a casa dal comune di Pavia, per cui lavorano, legati da una convenzione. Il sindaco Cattaneo dice che costano troppo. 4 giardinieri comunali della cooperativa sono già rimasti a casa alla scadenza del contratto. Protesta dei lavoratori in consiglio comunale, a cui segue un incontro con Cattaneo, che fa marcia indietro e promette che tutti i soci attuali della cooperativa continueranno a lavorare
§ Un anno di cassa straordinaria richiesto per i 39 operai della vigevanese Cerim, dopo anni di posti tagliati (cinque anni fa i dipendenti erano 124). Nuovo periodo di cassa integrazione anche per i 90 dipendenti della Gravati
§ Si fermerà per due mesi la produzione alla Rdb di Lomello, prefabbricati in cemento, 56 lavoratori in cassa integrazione

Febbraio 2010
§ La proprietà della Riseria Europea di Ferrera Erbognone, 32 dipendenti, richiede al tribunale la messa in liquidazione e spedisce le prime 12 lettere di licenziamento. L’azione è illegale, i padroni devono ritirare i licenziamenti e aprire la procedura di mobilità, ma la sostanza cambia poco
§ Licenziamento fuori-legge per una giovane operaia vigevanese: oltre ad essere stato effettuato in un periodo di cassa integrazione, il licenziamento è illegale perché coinvolge una lavoratrice madre di un bambino sotto l’anno di età
§ Dopo un anno di cassa straordinaria per un terzo dei 100 lavoratori, ancora cassa integrazione a rotazione fino a maggio alla Record di Garlasco, materiali per l’edilizia, di proprietà della multinazionale Crh, mentre si fanno largo voci su possibili licenziamenti
§ Gli operai dell’Impero del legno, ditta fallita nel 2008, hanno ricevuto solo metà del Tfr (la parte dovuta dall’Inps). È in corso una causa per ricevere la quota dell’azienda e un indennizzo per gli straordinari pagati in modo discontinuo per 5 anni
§ Sono in netto aumento gli sfratti in tutta la provincia. La morosità riguarda soprattutto operai stranieri (ma non solo) che hanno perso il loro posto di lavoro nell’edilizia o nel meccanico

Marzo 2010
§ In arrivo una primavera di cassa integrazione per i tre quarti dei 400 lavoratori dello stabilimento di Dorno della Disano Illuminazione, dove si svolge l’intero processo produttivo
§ Sempre a Dorno, la Ghibli, produzione di macchine per pulizie industriali, avvia 15 dei 186 dipendenti (si tratta di addetti al montaggio, intorno ai 30 anni) a dei corsi per un futuro ricollocamento, in vista di probabili licenziamenti alla fine della cassa integrazione
§ Sciopero alla Merck Sharp & Dome di Pavia contro la cessione di un ramo dell’azienda. Sono 17 i lavoratori coinvolti, che vanno incontro a peggioramenti contrattuali, ma in più il timore è che questo sia il primo passo verso una ulteriore riduzione del personale dopo i continui tagli degli anni scorsi
§ Licenziamento in blocco alla Tanino Crisci di Casteggio, marchio internazionale del calzaturiero: 39 dipendenti su 45 messi in mobilità per la decisione della proprietà di non continuare la produzione nello stabilimento di Casteggio. In uno dei successivi incontri c’è un parziale passo indietro della proprietà: 20 operai continueranno a lavorare per esaurire alcune commesse, per circa un mese, e al momento continua la cassa integrazione per gli altri. Al termine di questo periodo la produzione a Casteggio potrebbe fermarsi in modo definitivo, con il licenziamento dei lavoratori
§ Dopo un anno di cassa integrazione ordinaria a 800 euro al mese, inizia la cassa straordinaria per 74 lavoratori della Molina e Bianchi di Vigevano, produzione di macchinari per il calzaturiero. I padroni però dichiarano di non avere la liquidità per anticipare i soldi della cassa ai dipendenti, come normalmente avviene, e 74 operai rischiano di passare i prossimi 5 mesi senza un reddito

CON GLI IMMIGRATI. CRONACHE DAI C.I.E. (n° 3 - aprile 2010)

I c.i.e. sono luoghi, sparsi in tutta Italia, dove vengono rinchiusi i migranti clandestini. L'introduzione di questo strumento di dominio è merito del governo di centro sinistra che, nel 1998, ha deciso di utilizzare soldi pubblici per dotare la comunità di queste strutture. Il perfezionamento e l'inasprimento delle condizioni detentive è poi toccato al centro destra: il pacchetto sicurezza varato dal razzista Maroni ha introdotto il reato di clandestinità, prolungato la detenzione da 2 a 6 mesi e reso molto più complesse le procedure per ricevere il permesso di soggiorno. Nell'Italia di oggi i c.i.e. sono, probabilmente, i luoghi in cui il potere si scaglia più crudelmente contro la libertà e la dignità umana. Pestaggi, torture, detenzione senza processo sono prassi quotidiana per chi non ha quel maledetto pezzo di carta. Inevitabilmente i c.i.e. diventano anche i luoghi in cui il conflitto si fa più radicale, lasciamo quindi la parola direttamente a chi lotta, con lo scopo di fare da cassa di risonanza a loro, rompendo il silenzio e l'indifferenza che dilagano su questo tema.


Dal 3 di marzo nel c.i.e. di via Corelli (Milano) si sta svolgendo uno sciopero della fame, questa è una parte del comunicato di rivendicazione dei migranti reclusi.

"Siamo stanchi di non vivere bene. Viviamo come topi. La roba da mangiare fa schifo. Viviamo come carcerati ma non siamo detenuti. I tempi di detenzione sono extra lunghi perché 6 mesi per identificare una persona sono troppi. Siamo vittime della Bossi Fini. C'è gente che ha fatto una vita in Italia e che ha figli qua, gente che ha fatto la scuola qui e che è cresciuta qui. Non è giusto. Non siamo delinquenti. L'80 per cento di noi ha lavorato anni per la società italiana e si è fatta il culo. I veri criminali non ci sono qui. Una settimana fa uno di noi ha cercato di suicidarsi. Poi sono arrivati i poliziotti coi manganelli per picchiarci come criminali o animali. Siamo stanchi di questa vita. Vogliamo essere liberi come dei gabbiani e volare. Però sei mesi sono troppi per un'identificazione, qui è peggio, peggio della galera.
La gente uscita dal carcere viene riportata qui altri sei mesi dopo che ha pagato la sua pena, non è giusto. La gente che ha avuto asilo politico dalla Svizzera o da altri stati in Europa e del mondo qui in Italia non li accettano, non è giusto. I motivi dello sciopero è che i tempi sono troppo lunghi e abbiamo paura perché due di noi sono morti dopo che sono stati espulsi altri sono pazzi e noi non sappiamo cosa fanno loro dopo l'espulsione, e per andare ti fanno le punture e diventi pazzo, alcuni muoiono. Entrando qui eravamo tutti sani e poi usciamo che siamo pazzi. Inoltre rimarremo in sciopero fino a che non fanno qualcosa per quelli arrestati di Torino che hanno fatto tante cose per noi e che ora son in carcere(*).
Come scrive Dante il grande poeta "Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare"

(*): in questa parte i reclusi si riferiscono agli arresti e le perquisizioni effettuati a Torino contro i redettori di Macerie e Radio Black Out, compagni che sostengono da tempo le lotte nei CIE.

In questa seconda parte vengo descritte, da varie testimonianze, raccolte da dentro il c.i.e. di via Corelli, le condizioni detentive dei clandestini. Il tutto è tratto dal blog noinonsiamocomplici.noblogs.org

“Siamo in 20 persone che stiamo facendo lo sciopero della fame. In ogni stanza siamo in 4 persone. I muri son pieni di muffa le lenzuola vengono cambiate una volta alla settimana mentre le coperte non vengono mai cambiato. Ogni 15 giorni ci danno un bagnoschiuma. Alla sera dobbiamo pulire noi la stanza con la scopa e il secchio. Le finestre sono senza tende così la mattina presto entra la luce. Noi siamo obbligate a mettere le coperte sulla finestra per dormire. Il bagno è uno schifo. E’ molto sporco. Gli scarichi son tutti intasati, dobbiamo fare per forza i nostri bisogni in piedi. Alle 8 e mezza di mattina ci portano un bicchiere di latte e una brioche. Non possiamo bere le cose calde se non con la macchinetta a pagamento. Il cibo è molto scadente, ci portano spesso il tacchino. Noi che abbiamo il silicone non possiamo mangiare il tacchino. Per questo a molte di noi sono venute infiammazioni alle protesi ai fianchi al seno nei glutei. Quando andiamo alla croce rossa per i nostri problemi di salute ci danno dei tranquillanti per togliere il dolore, ma queste gocce ci fanno addormentare. Quando abbiamo troppo dolore ci danno la tachipirina”.“Io mi chiamo [...] sono qua da una settimana. Ho subito iniziato lo sciopero della fame perché non possiamo stare qua 6 mesi. Inoltre sono sieropositiva, avevo da fare gli esami del sangue per valutare quali medicamenti prendere invece son stata portata qui e mi hanno fatto saltare la visita. Ho avuto tre giorni la febbre molto alta. Stavo così male che mi hanno portato in ospedale al policlinico per un blocco intestinale. Dopo di che mi hanno riportato in Corelli sempre senza le medicine per l’hiv. Io sono in Italia da nove anni, mi sono ammalata in Italia e non posso stare qua dentro. Abbiamo bisogno di mantenerci e di mantenere la nostra famiglia al paese. Noi vogliamo la nostra libertà perché non abbiamo fatto nulla e ci obbligano a stare qua dentro senza potere fare nulla. C’è una psicologa che viene dentro una volta alla settimana, ma tanto alla fine ci danno sempre 30 gocce di Valium o per dormire e via…poi diventiamo tutte dipendenti”.“Io ho avuto un incidente molto grave fuori da qua. Ero ancora in cura con la fisioterapia e invece mi hanno presa e portata al cie. Mi ero fratturata la scapola sinistra il femore e il ginocchio. Qui spesso la ferita alla gamba mi si infiamma. Vado in infermeria, mi danno una crema idratante e basta. Molte di noi sono state prese a Pisa, chi ci viene a trovare ha diritto a 7 minuti di colloquio dopo 5 ore di viaggio… È pieno ovunque di scarafaggi e vermi nei water e nella doccia. La polizia ci maltratta, ci trattano come cani, ci insultano dicendo che siamo tutti gay, fanno battute sessiste nei nostri confronti. Quando diciamo cose che non gli vanno bene ci danno schiaffoni in faccia, per qualunque cosa ci aggrediscono e ci trattano come se non fossimo come esseri umani, con totale disprezzo. Sappiamo che una trans a Natale s’è suicidata qua dentro… c’è una ragazza dentro da quattro mesi che ha visto quello che è successo quando la ragazza si è suicidata e ora è del tutto fuori di testa, perché una persona normale non può sopravvivere qua dentro e molti vedono come unica uscita la morte… Ci sono persone con casi psichiatrici e dobbiamo vivere tutti assieme in una situazione di conflitto, con diverse patologie tutti assieme e qua entro siamo costretti a convivere con malattie diverse, neppure in carcere è così”.Ed una testimonianza dal reparto donne:“Mi chiamo [...] vi racconterò la mia storia. Sono arrivata in Italia come turista perché mi piaceva molto questo paese. L’ultima volta mi ha fermato la polizia, mi hanno chiesto il permesso di soggiorno. Io avevo solo il visto come turista ma mi hanno portato in questura dove son stata 3 giorni e poi in Corelli. Mi hanno presa il 26 gennaio e avevo in tasca il biglietto dell’aereo per tornare in Brasile il 16 febbraio…beh son ancora qui. Ora dovrò uscire da questo paese come una criminale, scortata dai poliziotti. Non immaginavo che in Italia potesse esistere un posto come questo. Mi sento inutile, sto molto male. Ci trattano come animali, e questo è solo l’inizio… dovremo fare sei mesi in questo inferno per poi uscire di qua con un’espulsione per dieci anni. Chiediamo a tutti che ci ascoltino che anche se ci dicono clandestini siamo gente di buon cuore. Siamo venuti in cerca di una vita migliore. Stiamo facendo lo sciopero per fare capire alla gente che siamo esseri umani e abbiamo il diritto di vivere qua come tutti gli altri e che non ci possono togliere la libertà. Ci dovrebbero esser altri modi per ottenere questo pezzo di carta senza passare da questo inferno. È veramente una legge ingiusta, non so chi l’ha inventata e non vogliamo rispettarla. Per noi l’unica opzione che abbiamo è lottare”.


Durante la stesura di questo giornale apprendiamo che sette ragazzi sono riusciti ad evadere dal c.i.e. Di Torino. Gioiamo e auguriamo buona libertà ai fuggiaschi, per quanto si possa essere liberi senza quel maledetto pezzo di carta...

I SANS PAPIERS PARIGINI IN LOTTA PER LA REGOLARIZZAZIONE (n° 3 - aprile 2010)

Orhan Dilber è un portavoce del collettivo turco-curdo, una delle realtà in lotta a Parigi per l’affermazione dei diritti degli immigrati clandestini, in francese i “sans papiers”. L’associazione Ci siamo anche noi lo ha ospitato a Pavia lo scorso 22 febbraio. Dilber può entrare e uscire dalla Francia essendo un rifugiato politico, perseguitato dal governo: non è un clandestino, quindi è soltanto uno dei portavoce del movimento, non ha diritti decisionali nelle assemblee e non può partecipare a molte riunioni.
L’obiettivo portato avanti dai sans papier è quello della regolarizzazione di tutti gli immigrati clandestini che vivono in Francia, al di là del loro ruolo sociale. Per questo sono nati contrasti con la Cgt, uno dei maggiori sindacati francesi: i dirigenti sindacali hanno ignorato i collettivi di sans papier e hanno puntato unicamente sui lavoratori che “possono permettersi” di scioperare, in particolare quelli che lavorano in subappalto per grosse aziende, che sono in qualche modo protetti dai dipendenti regolari organizzati. Lo sciopero è una forma di lotta adottata anche dal movimento dei sans papier, ma non deve essere l’unica: i clandestini non devono per forza essere lavoratori di categorie in cui i sindacati sono presenti, per lottare per i propri diritti. La maggior parte dei sans papier lavora nel commercio, nei ristoranti, nell’edilizia, moltissime donne come badanti per gli anziani. Molti sono disoccupati o lavorano saltuariamente, o hanno perso il posto di lavoro a seguito della crisi e sopravvivono senza nessuna protezione economica. Ci sono quelli che hanno aperto piccole attività artigianali. E oltre ai lavoratori, il movimento dei sans papier chiede la regolarizzazione per tutti gli altri, bambini e anziani, oltre a tutte le donne che svolgono un lavoro di cura della famiglia e sono fuori dal mercato del lavoro.
Un momento di svolta per il movimento si è avuto nel luglio 2009, con l’occupazione a Parigi di un grande palazzo governativo, dove attualmente vivono 3mila immigrati, di 25 nazionalità diverse. L’edificio era conteso da due enti pubblici e non era utilizzato: l’informazione è arrivata dai lavoratori degli enti, che hanno poi preso posizione contro un eventuale sgombero. In questo palazzo è stato creato il Ministero per la regolarizzazione, in opposizione al ministero ufficiale, quello “dell’immigrazione e dell’identità nazionale francese”. Oltre ai corsi di francese, al collettivo “Velorution” per il recupero e la distribuzione di biciclette, oltre a fare musica, si tengono le assemblee dei clandestini e si organizzano le manifestazioni che si svolgono ogni settimana a Parigi: o autonome o in sostegno ad altre lotte (ad esempio ultimamente i sans papier sono scesi in piazza per appoggiare lo sciopero dei postini).
La manifestazione più grande è stata quella del 12 ottobre scorso, con 12mila persone a bloccare la città e il ministro dell’immigrazione costretto a ricevere una delegazione di sans papier. Un riconoscimento legale ricercato in particolare per opporsi a una pratica criminale della polizia francese: quella di convocare nelle prefetture gli immigrati assicurando che il permesso di soggiorno è stato ottenuto. Quando gli stranieri si presentano per ritirarlo vengono fatti sparire, vengono rimpatriati senza che nessuno sappia più niente di loro. I collettivi, in risposta, hanno iniziato a presentarsi con propri membri o portavoce insieme agli immigrati convocati dalla polizia.
I sans papier sanno di non essere soli nella loro lotta, sanno di condividere la propria situazione con migliaia di immigrati, clandestini e non, negli altri paesi europei.
Non è un caso che a gennaio i clandestini parigini abbiano manifestato sotto l’ambasciata italiana per dare la loro solidarietà ai lavoratori immigrati di Rosarno, schiavizzati per anni dai loro padroni italiani, presi a fucilate e poi vittime di cacce all’uomo da parte di gruppi di “cittadini”, prima della deportazione da parte della polizia.

GRECIA. 2010: gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano (n° 3 - aprile 2010)

Da oltre un mese la Grecia è sulle prime pagine dei media europei ed internazionali. La condizione economica di Atene ha creato nel momento della rivelazione una preoccupazione diffusa in tutta l'area euro. Preoccupazione per le conseguenze di un rischio default, per la voragine nelle casse di uno stato del circuito euro: timore di contagio di altri stati-euro deboli, paura di un allargamento a macchia d'olio, dibattiti attorno al “chi” si farà carico del peso necessario per, se non sanare, salvare la Grecia.

Poco o nulla si è detto sulla storia recente del paese, su un'economia malata, corrotta e falsificata da cinquanta e più anni. E’ apparsa qualche riflessione sui dati “ritoccati” forniti da Atene durante i cadenzati steps per monitorare l'ottemperanza ai parametri di Maastricht: mancavano e mancano tutt'ora autorità europee in materia, persiste la falla di un istituto sovranazionale di controllo e armonizzazione delle politiche economiche e finanziarie degli stati membri.

Al momento dello scoppio della bolla ellenica al governo c'è il Pasok di Georges Papandreou, partito socialista eletto lo scorso ottobre con il 43,94% dei voti e 160 dei 300 seggi dell'unica camera. Il Pasok non è una novità nella scena politica greca, anzi: assieme a Nea Dimokratia (destra, uscente dal governo) compone le due famiglie dei potenti che dal 1950 dominano indiscusse la scena politica.

Le famiglie partitiche si intrecciano a maglie strette con le famiglie di sangue: l'attuale premier Papandreu è nipote del suo omonimo (figura di spicco della politica greca dopo la seconda guerra mondiale) e figlio di Andreas (fondatore del Pasok e primo ministro negli anni Ottanta). Dall'altra parte, l'ultimo ministro di Nea Dimokratia, Konstantinos Karamanlis, è omonimo di suo zio, fondatore del partito; mentre uno dei possibili eredi nel partito di Karamanlis, Dora Bakogiannis (già sindaco di Atene) è figlia dell'ex primo ministro Konstantinos Mitsotakis.

L’economia greca è sommersa, i migranti sono impiegati come forza lavoro sottopagata e gravemente sfruttata. Le tasse sono poche e basse, con tassi d’evasione alle stelle: la situazione da una parte permette ai greci di consumare alla grande (case di proprietà, terreni, automobili, cellulari, consumo di alcolici e record UE di obesi), e dall'altra, inevitabilmente, limita le possibilità di intervento dello Stato. La corruzione è parte radicata e invasiva di tutti i livelli della vita pubblica, dalle mazzette per avere un posto letto in ospedale, a quelle per un permesso di costruzione, arrivando alle assunzioni di tipo clientelare nella pubblica amministrazione ai grossi scandali politico-economici.

A completare il quadro sono le (esagerate) spese militari, ulteriore zavorra nel bilancio dello Stato. Francia e Germania, principali fornitori, traggono enormi vantaggi nel vendere al governo greco armi obsolete a prezzi rincarati: il tornaconto Atene l’ottiene in ambito europeo, vendendo tanti occhi chiudersi davanti ai propri conti truccati e ritoccati, quantomeno fino allo scandalo di inizio febbraio.

Papandreou prometteva di “cambiare il paese”, di trascinarlo fuori dal pantano economico ancora nascosto ai riflettori europei, di “rimettere il Paese sui binari della ripresa e dello sviluppo” senza perdere tempo. Ma il tempo, si sa, è tiranno e la minestra riscaldata non ha tempo e forza di sfamare: anche in un arco temporale dilatato non avrebbe intrapreso la strada delle riforme radicali auspicate dal paese. Il Pasok ha contribuito alla crisi, ammalandosi di nepotismo, tangenti e falsi in bilancio: Andreas Papandreou, padre di Georges e leader del Pasok, fu promotore degli sprechi nel momento utile per sanare i conti, successivo all'ingresso della Grecia nella Cee (avvenuto nel 1981) e del conseguente afflusso di (ingenti) finanziamenti europei.

L’alternativa si era proposta agli elettori. Non di certo la compagine a struttura stalinista del Kke, ancorata ad un'interpretazione della società non aggiornata quando non obsoleta, determinata a non innovarsi in forza del 7,5% (e 21 seggi) di veterani. Il riferimento è piuttosto a Syriza, Coalizione della Sinistra Radicale fondata nel 2004, già presente in parlamento con 14 seggi (5,04% alle politiche del settembre 2007). Il suo leader, il trentaquatrenne Alexis Tsiparas, interpreta a dovere la situazione greca, parla ai giovani precari e disoccupati e agli studenti mobilitati contro le politiche del governo, senza tralasciare donne e ambientalisti, con una dialettica e un programma adeguato ad un contesto europeo neoliberista in cui la Grecia si mostra repressiva, corrotta, indebitata e priva di proposte e persino di interesse per i suoi giovani.

Se le urne non lo hanno premiato (4,6% e 13 deputati) la ragione va innanzitutto ricercata nella propaganda al voto utile, disperato e decisivo cavallo di battaglia del Pasok necessario a scalzare Nea Dimokratia e garantire quella persistente illusione di democrazia che è l'alternarsi al potere dei due maggiori partiti (ND e Pasok), veri responsabili della crisi. L'impegno teso a identificare Syriza a “rifugio dei 'casseurs' ” ha ulteriormente contribuito ad alimentare le promesse di riscatto democratico dei socialisti.

Questo per quanto riguarda le cause endogene, importanti ma non esclusive: al suo interno la coalizione è perennemente dilaniata da continui litigi tra le varie componenti, a tal punto da dilapidare in pochi mesi l'enorme consenso che aveva conseguito ponendosi come unica forze politica dialogante con i rivoltosi del dicembre 2008. Anche il suo rapporto con i movimenti è tutt’altro che ottimo, con le solite accuse di “pescare” voti e di fare da “pompiere”.

Syriza parla alla “generazione dei 700 euro” (680 euro è il minimo sindacala garantito) e a quelli (tanti) per cui 700 euro al mese sono una speranza. Parla agli studenti medi, liceali e universitari scesi in piazza nell'autunno 2008 assieme a Alexis Grigoropoulos, il quindicenne ucciso in piazza dalla polizia. Atene, Salonicco, Patrasso, Larissa, Eraklion, Ionnina, Volos, Kozani, Komotini erano in mobilitazione, occupate da migliaia di manifestanti giovanissimi (dunque non votanti) senza fiducia nei partiti e nello stato, costretti in un paese indebitato con la prospettiva di un futuro quantomeno precario, certamente privo delle aspettative che hanno caratterizzato la generazione precedente.

La rabbia si manifestò nelle strade dense di studenti affiancati dai lavoratori, radicale, incappucciata e capillare, memore dell'odio marchiato dai colonnelli, aizzato dalla repressione. Media e governo hanno avuto facili pretesti per inquinare l’informazione, riprendendo barricate, incendi e banche assediate, riducendo i fatti a un perverso “attentato contro la democrazia”, senza offrire al pubblico l’interrogativo sulle ragioni in capo alla rivolta.

Alla protesta ha fatto seguito la tornata elettorale, e al voto la speranza nel cambiamento, che ha contribuito a cancellare l'immagine di un paese messo a ferro e fuoco dai propri giovani, disperati e disillusi. A quindici mesi dalla protesta l'Europa si è accorta delle condizioni in cui versa la Grecia, portando all'attenzione pubblica lo stesso disagio manifestato dalla piazza, seppur circoscritto ai connotati economici e, sopratutto, privo di un (necessario) filo conduttore con la stessa. Il Pasok adotterà politiche economiche più austere per compiacere il creditore di turno, evitando la bancarotta ed aggravando la già drammatica situazione sociale, che vede in queste settimane dipendenti pubblici, agricoltori ed altri lavoratori agitarsi in piazza, destabilizzando un equilibrio di per sé già instabile.

E' necessario soffermarsi e comprendere che la crisi e le soluzioni proposte non sono un’esclusiva greca. In contesto europeo si parla, con un acronimo azzeccatissimo, di piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), le ultime ruote, trasandate e malate, di un’Europa complice in profonda crisi economica e d'identità. La Grecia ha solo aperto la strada, iniziando una lunga lotta sociale ed erigendo un'interessante, seppur problematica novità, Syriza, i cui connotati appaiono sconosciuti e terribilmente distanti dallo scenario politico (non solo parlamentare) nostrano.

La grande incognita è cosa succederà ora, col Pasok costretto a barcamenarsi tra le pressioni dell'UE, che ha imposto tagli indiscriminati alla spesa pubblica (iniziando dalle pensioni), e la paura che il paese si rivolti con ancor più rabbia. Probabilmente non accontenterà nessuno dei due.

EUSKADI. L'IPOCRISIA DELLO STATO SPAGNOLO (n° 3 - aprile 2010)

Il governo Zapatero, in maniera molto ipocrita, ha chiesto al governo cubano e alle associazioni per i diritti umani l’immediata liberazione dei detenuti politici cubani, facendo finta di nulla su ciò che causa lo stato spagnolo ai Paesi Baschi. In ambito internazionale Zapatero cerca di mostrare il suo impegno politico per salvaguardare la libertà politica di un paese sotto dittatura, ma continua a reprimere violentemente il movimento indipendentista basco facendo il possibile perché i media internazionali non vengano a sapere nulla delle torture che avvengono quotidianamente nei commissariati della polizia, portando avanti una criminalizzazione dei partiti della sinistra abertzale, sinistra indipendentista basca, incarcerando i suoi militanti. Il governo spagnolo continua ad ignorare le richieste che vengono fatte dal popolo basco sulla richiesta di un’amnistia per i detenuti politici, l’unica risposta che hanno avuto è stata quella degli arresti preventivi, delle deportazioni e della tortura dei militanti indipendentisti.
In Spagna esiste una legislazione antiterrorista che dà di fatto alle forze di polizia dei poteri speciali: se una persona è sospettata di terrorismo le forze dell’ordine possono detenere il soggetto in questione fino a cinque giorni senza possibilità di mettersi in contatto con l’esterno, di fatto è una detenzione segreta senza nessuna possibilità di mettersi in contatto con un avvocato né con i propri famigliari.
La maggior parte dei detenuti politici baschi sono distribuiti in centinaia di carceri in Spagna e in Francia, nei Paesi Baschi si trovano solo una decina di detenuti. Infatti un'altra rivendicazione del popolo basco è che i detenuti politici bachi devono tornare immediatamente nei Paesi Baschi, ma la strategia del governo spagnolo è che l’allontanamento dei detenuti dalla loro terra, Euskal Herria, è dovuta a motivi di sicurezza e di spazio. In realtà si tratta di una precisa pratica politica, praticata dal 1984, che porta avanti l’idea di rompere, con l’isolamento e la distanza, il forte sentimento di militanza politica.
Questa mossa politica ha generato solo grandi sofferenze nei familiari dei detenuti, che sono costretti a lunghi viaggi per poter visitare i propri cari e spesso senza riuscire a vedere il detenuto perché di norma il prigioniero viene spostato da un carcere all’altro senza che i familiari ne vengano a conoscenza .
La costituzione spagnola prevede delle leggi speciali L’articolo 384 bis della recente “Ley de enjuiciamento judicial” prevede la soppressione di alcuni fondamentali diritti dei detenuti, tutelati dalla Carta, nel caso di delitto compiuto da persona «integrata o relazionata con banda armata o con individui terroristi o ribelli». L’articolo 520 bis della stessa legge, al secondo comma, dà al giudice facoltà di «decretare lo stato di isolamento dei detenuti accusati dei delitti previsti all’articolo 384 bis». Ancora, secondo l’art 527 della stessa legge, il detenuto in regime di isolamento non potrà parlare con il suo legale (che in ogni caso potrà essere solo un avvocato nominato d’ufficio) né con i familiari, neanche per far conoscere il luogo della sua detenzione. Tale stato di totale isolamento dal mondo esterno può durare fino a settantadue ore prolungabili, su decisione motivata del giudice, per altre quarantotto. Questo permette di mettere sotto accusa non solo i membri effettivi dell’ETA ma anche tutto il tessuto sociale della sinistra abertzale (partiti della sinistra indipendentista basca), che lo stato spagnolo chiama «il fronte sociale dell’ETA» e che considera ugualmente parte dell’organizzazione armata.
È un’interpretazione ideologica perché nella maggior parte dei casi non c’è nessun fatto che possa far pensare ad un collegamento come questo. Durante questi cinque giorni, secondo quanto dichiarano i testimoni e le associazioni basche in difesa dei diritti umani, gli interrogatori di polizia sconfinerebbero regolarmente nella tortura e nei maltrattamenti.
Ogni anno vengono riscontrate più di cento denunce su casi di tortura avvenuti nelle caserme della guardia civil, ma la maggior parte delle volte chi subisce violenze preferisce non denunciarle per paura di ripercussioni.
Ora analizzerò un caso concreto per mostrare come si svolgono le torture all’interno di un commissariato di polizia durante questi terribili interrogatori.
Il caso che andremo ad analizzare è quello di Joxe Domingo Aizpurua. Il 2 giugno 1994 Joxe finiva di scontare la condanna a quattro anni di carcere nello stato francese, dopo una permanenza effettiva di tre anni. Nel momento in cui veniva messo in libertà dal carcere di Fleury Merogis, la polizia francese l’arrestò di nuovo per consegnarlo nella serata alla guardia civil a Irun (Pamplona).
La narrazione che segue è stata scritta dallo stesso Joxe, raccoglie le tremende torture sofferte nelle mani della guardia civil dall’istante stesso in cui, alle nove meno un quarto, venne introdotto nel furgone della polizia nella città di frontiera di Irun.
Le torture durarono diversi giorni,tra Donostia (San Sebastian) e Madrid, rimase in isolamento assoluto per un totale di quattordici giorni,includendo anche quelli di successivo isolamento carcerario.
Dopo essere passato dall’Audencia Nacional (tribunale speciale per i reati di terrorismo, con sede a Madrid)senza aver potuto nominare un avvocato di fiducia a causa dell’isolamento, venne rilasciato in libertà vigilata senza cauzione e tornò a Usurbil, nella provincia della Gipuzkia, suo paese di origine, dove fu accolto calorosamente dalla sua gente che gli organizzo una festa di ben tornato che riunì una moltitudine di persone.

Ecco il racconto del detenuto: “Alla frontiera mi fecero salire su un veicolo camuffato e tre agenti della guardia civil in borghese mi fecero stendere sulla parte posteriore de veicolo e, con il capo sempre coperto da un golfino, cominciarono a picchiarmi su tutto il corpo, testa, viso, ventre, testicoli…mentre mi insultavano e mi minacciavano”. Così fui trasferito al commissariato della guardia civil di San Sebastian, dove appena arrivato mi coprirono gli occhi con una specie di benda o di maschera con la quale rimasi durante tutto il periodo di detenzione, sia a San Sebastian che a Madrid. Me la toglievano solo davanti al medico fiscale e durante le dichiarazioni davanti all’avvocato d’ufficio.
Appena arrivati al commissariato di San Sebastian fui visitato da un presunto medico fiscale,che in nessun momento si presentò come tale.
Subito dopo la visita, e sempre con gli occhi bendati, cominciarono il lungo interrogatorio e le selvagge torture, che durarono l’intera notte senza cessare un solo attimo, fin verso le sette del mattino del tre giugno.
L’inizio delle torture fu come una specie di atto rituale.
Mi trovavo con gli occhi bendati immerso nel più assoluto silenzio, quando questo fu interrotto improvvisamente da grida, insulti e minacce,con altre due voci che mi parlavano alle orecchie e con rumori di passi militari attorno a me. Subito dopo mi misero una specie di benda ai polsi e cominciarono a coprirmi la testa con una borsa di plastica, cosa che è risaputa, causa un soffocamento immediato.
Ogni volta che me la mettevano, uno dei torturatori mi afferrava i polsi per controllare le pulsazioni e ordinava agli altri quando togliere la borsa. Tre secondi dopo me la infilavano di nuovo.
E in questo modo l’operazione venne ripetuta un’infinità di volte.
L’alternanza dei metodi di tortura consisteva nella borsa, elettrodi e le botte su tutto il corpo.
La borsa mi veniva imposta in sessioni da cinque a dieci volte e, dopo ogni serie, mi applicavano gli elettrodi.
Potevano essere applicati in qualunque parte del corpo: la punta dei piedi, i polpacci, le cosce, i testicoli e il pene(in modo particolare), la bocca, le mani, il petto…
A volte mi offrivano un bicchiere d’acqua e, mentre sorreggevo il bicchiere, mi applicavano di nuovo gli elettrodi sulla mano: nel rovesciare l’acqua si produceva una scarica ancora maggiore.
Immediatamente dopo le grida di dolore che lanciavo per l’applicazione degli elettrodi, venivano i pestaggi.
Sul viso e sul petto mi colpivano con il palmo della mano per non lasciare i segni, mentre sul ventre e nei testicoli lo facevano con il pugno chiuso. Mi colpivano ripetutamente sulla testa con una specie di libro, il che mi provocava la strana sensazione che la testa si stesse gonfiando.
In un’infinità di occasioni, per umiliarmi e per rivolgermi ogni tipo di insulto, mi denudavano completamente, cosa che mi dava un panico tremendo perché temevo che mi applicassero gli elettrodi direttamente sulla pelle; ma non lo fecero mai: me li applicarono sempre sopra i vestiti.
La serie di torture che ho descritto mi era imposta incessantemente, fin dall’inizio mi minacciarono, se avessi denunciato le torture al giudice o al quotidiano Eguin, di arrestare e incarcerare mia madre.
Poco prima di essere trasferito da San Sebastian a Madrid, mi introdussero in una cella scura, dove mi tolsero la benda, ma io rimasi al buio.
Mi obbligarono a stare in piedi contro la parete, però persi i sensi (durante le torture mi era successo varie volte) per la sofferenza della notte e rimasi steso al suolo nella cella con una sensazione che sono soliti chiamare “effetto discoteca”: vedevo sul soffitto e sulle pareti come dei piccoli cerchi d’ombra che si muovevano e sentivo solo il pianto di dolore che usciva da me stesso.
Poco dopo, un gruppo di torturatori, non so esattamente quanti, entrò nella cella e,coprendomi un’altra volta il viso con una coperta,tra insulti e minacce, mi interrogarono di nuovo, in cella, mentre ero steso al suolo.
Poi mi fecero alzare per portarmi a Madrid.
Dalla cella fino alla porta principale mi condussero con gli occhi bendati, ma all’uscita mi tolsero la benda e solo allora mi resi conto che mi trovavo nel commissariato della guardia civil del quartiere antico di San Sebastian.
Per la luce del giorno e per il poco traffico che c’era pensai che potessero essere più o meno le sei del mattino.
Durante quella lunga notte non mi avevano dato né la cena né niente altro.
E quando uscii dalla cella al mattino non fui visitato dal presunto medico fiscale prima menzionato.
All’interno di un furgone della guardia civil mi trasferirono a Madrid. Appena partiti da San Sebastian misero la musica a tutto volume e non l’abbassarono durante tutto il viaggio.
Il furgone era diviso in vari scompartimenti,cosa che impediva di vedere all’esterno; nello scompartimento del furgone dove mi avevano messo c’era solo un altoparlante.
Così in posizione fetale, con continui brividi, abbattuto e distrutto dalla lunga notte di torture, mi portarono fino a Madrid.
Quando ci trovavamo già all’interno del posto di polizia, mi lasciarono circa due ore dentro il furgone in pieno sole.
Poi mi coprirono la testa con un golfino e mi trascinarono fino ai sotterranei, mentre mi colpivano con piedi e mani su tutto il corpo.
Anche qui, in cella rimasi sempre al buio e quando mi fecero uscire per gli interrogatori mi bendavano sempre gli occhi.
Durante la mia permanenza a Madrid persi totalmente la nozione del tempo. Lì le sessioni di interrogatori furono moltissime, ma non sono in grado di precisare quante, né quando si svolsero. Non mi lasciavano riposare e continuavano a portarmi dentro e fuori dalla cella a condurmi nuovamente in qualche sala per essere nuovamente interrogato.
Anche durante gli interrogatori a Madrid continuarono i pestaggi e le minacce costanti, ma non applicarono la borsa né gli elettrodi.
A Madrid mi visitò varie volte un medico fiscale, ma non so quante né con che frequenza.
Quando le chiedevo quando sarebbe tornata di nuovo, non mi rispondeva niente di preciso, da cui deducevo che i torturatori potevano disporre del tempo a loro piacimento.
Quando il medico mi chiedeva se avevo mangiato qualcosa dopo l’ultima visita, io non lo ricordavo:avevo perso completamente la nozione del tempo e i riferimenti concreti.
Mi minacciavano costantemente di torturarmi se di nuovo se avessi detto qualcosa al medico fiscale.
Temendo ciò e pensando ci fossero microfoni ovunque, in nessun momento denunciai al medico le torture subite.
La stessa cosa succedeva quando veniva l’avvocato d’ufficio per le dichiarazioni.
Mi dicevano che mi avrebbero torturato di nuovo se avessi cercato di rettificare davanti all’avvocato quello che mi avevano obbligato ad affermare sotto tortura.
Una volta compiuto questo rituale, di nuovo, fino alla dichiarazione successiva, continuavano gli interrogatori e le torture.
Durante la prima dichiarazione davanti all’avvocato, misero in un atto una simulazione: si presentò un falso avvocato, in realtà un membro della guardia civil, per controllare il mio comportamento.
Ne sono sicuro perché in nessun momento mi presentò alcun documento di identificazione e perché, alla terza o quarta domanda, finse di star male e sospesero la seduta.
Gli unici momenti durante i quali restai senza benda sugli occhi furono quelli delle dichiarazioni con l’avvocato e davanti al medico fiscale.
Rispetto al comportamento del medico, devo dire che in nessuna delle occasioni mi visitò. Al commissariato mi fece spogliare completamente: mi faceva rimanere in slip ma, stranamente, dopo cinque giorni dopo il mio ingresso nel carcere di Carabanchel, la stessa dottoressa si presentò per farmi un’ultima visita per ordine del giudice e in quella occasione mi fece spogliare completamente e potè vedere i pesanti segni che avevo sul ventre e sui testicoli."

Questo racconto è molto duro ma è la pura e semplice realtà dei fatti. Non bisogna nascondere ciò che accade, dobbiamo solo schifarci di tutti quei mezzi di informazione che censurano le violazioni dei diritti umani che subisce il popolo basco.
Tutti noi dobbiamo prendere una ferma posizione e dire no al gioco che portano avanti lo stato spagnolo e lo stato francese, alziamo la testa e uniamoci alla lotta per l’autodeterminazione dei Paesi Baschi per la liberazione dei prigionieri politici.

Per la collaborazione, grazie G.

RESISTENZA E REVISIONISMO. Battaglia culturale e criteri metodologici (n° 3 - aprile 2010)

“Me ne andavo una mattina a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare. Era una barca che andava a vapore e issava una bandiera tricolore”. Quanti lettori ricordano questi vecchi versi dell’ottocentesco ‘rimaiolo’ filo sabaudo Mercantini e la curiosa – ma non troppo – interpretazione in chiave patriottica della spedizione di Carlo Pisacane che egli propose nella Spigolatrice di Sapri? Oggi quei versi non vengono più recitati dagli alunni di scuola elementare all’esame di quinta, così come ai loro fratelli maggiori ben difficilmente vengono proposti corsi universitari esaustivi ed approfonditi sul Risorgimento italiano (normalmente i programmi di storia moderna si fermano a Napoleone, mentre quelli di storia contemporanea partono dal 1870): 55 anni che per un motivo o per l’altro nessuno può o vuole ricordare, sul piano pubblico o accademico. Ciò che è accaduto al Risorgimento, con tutta probabilità, accadrà anche per il nostro passato più recente, se noi, che siamo contemporanei e posteri, rifiuteremo di ricordare la verità.
Nel giugno del 1857 Carlo Pisacane, intellettuale eclettico dal passato burrascoso, appartenente alla seconda generazione di socialisti utopisti italiani, sbarcò a Ponza con un gruppo di volontari, liberò circa 300 prigionieri detenuti nelle carceri locali (dei quali la quasi totalità colpevole di reati comuni) e li diresse nell’interno della costa, sperando di suscitare un’insurrezione popolare di stampo egualitario e ‘socialisteggiante’ contro lo Stato borbonico. La spedizione venne assaltata e sopraffatta dalla popolazione locale, che consegnò i superstiti agli ufficiali borbonici. Questa, con annesse luci ed ombre, la verità. Un giovane e bello capitano, “con gli occhi azzurri ed i capelli d’oro”, mosso da patriottico ardore unitario, sbarca a Ponza con trecento arditi e pronti alla morte, nel nome della medesima sua causa, ma viene affrontato dai suoi spietati nemici antirisorgimentali, nettamente superiori di numero, sgominati ben due volte nella ‘pugna gloriosa’, combattuta all’ombra del glorioso tricolore. Questa la versione degli unici vincitori della grande battaglia culturale risorgimentale, i Savoia ed i loro sostenitori, capaci di trasformare una generazione di ribelli aspiranti all’uguaglianza ed alla pace tra i popoli, nei fideisti ed accorati martiri di un’Italia unita, guarda caso, proprio sotto i Savoia. Ossia nei precursori del nazionalismo controrivoluzionario ed antilibertario dei decenni a cavallo fra otto e novecento. Ciò che rende il Risorgimento attuale è la sua natura di fenomeno storico, le sue direttrici programmatiche e le sue contraddizioni, ma solo attraverso una ‘battaglia culturale’ di segno opposto a quella vinta dal notabilato liberale sabaudo, noi, i posteri, potremmo restituirlo al presente.
Con questa lunga premessa, in cui, forse, è tutto o quasi il senso del presente intervento sul problema del Revisionismo sulla Resistenza, si è voluto dare un’idea di quello che potrebbe essere un primo e superficialissimo approccio metodologico per un’interpretazione in chiave storiografica dell’eredità morale dell’esperienza partigiana.
In effetti, probabilmente, le domande più urgenti da porsi non dovrebbero riguardare la natura o l’origine del fenomeno revisionista, quanto le istanze più profonde e immediate del movimento resistenziale, lasciate nell’ombra tanto dai celebratori che dai detrattori di professione. Una critica matura ed approfondita si è imbattuta – e continuerà ad imbattersi – in uomini e donne a tutto tondo ed alle loro necessità concrete e vitali, ben lontane dai sognanti e lineari contorni delle ideologie, ma soggette alle contraddizioni ed alla casualità che, a volte, fanno di scelte decisive la somma di circostanze più o meno fortuite. Uno strumento preziosissimo e di facile consultazione per gli studenti dell’ateneo pavese è l’immenso patrimonio di testimonianze, scritte ed orali, raccolte durante un trentennio dal Centro Studi della Resistenza di Pavia. Attraverso l’ausilio di tecniche di intervista e di raccolta documentaria elaborate nell’ambito delle discipline attinenti alla storia orale, centinaia di testimonianze, singole e di gruppo, hanno restituito il vissuto di protagonisti e comprimari del fenomeno resistenziale, i rapporti reciproci tra comandanti e gregari, le dinamiche interne ai gruppi partigiani, il rapporto coi civili e la percezione del nemico: frutto facilmente fruibile di questo lavoro di raccolta è un volume ancora oggi insuperato, ossia L’altra guerra, di Giulio Guderzo, sulla Resistenza nel Pavese. Proprio la metodologia elaborata dalla storiografia orale consente allo studioso di squarciare il velo delle reticenze individuali e collettive, per superare gli assunti della vulgata ufficiale sulla Resistenza e ricostruire un quadro finalmente autentico ed a 360 gradi.
Impossibile non accorgersi, a questo punto, che la prima falsificazione e strumentalizzazione del senso profondo del fenomeno resistenziale fu proprio quella dei vincitori del secondo conflitto mondiale. Vincitori che, è bene ricordarlo, non furono i partigiani, ma i pazienti tessitori della politica italiana, che dovevano traghettare il paese dal fascismo alla ‘democrazia’, ricercando linguaggi e strategie tali da acclimatare il paese – e se stessi – ad un nuovo ordine internazionale. Che tale classe politica abbia utilizzato più che guidato il movimento partigiano, come strumento di pressione politica sugli alleati, è indubbio, così come è indubbio che, a prescindere da alcune istanze generali, accolte a livello puramente programmatico nella Costituzione italiana, la complessa e gloriosa progettualità dei ‘ribelli’ ebbe scarsa eco nelle priorità del nuovo regime (come dimostra chiaramente la mancata epurazione antifascista nell’amministrazione pubblica e nella magistratura, nonché la tabula rasa delle esperienze di governo dei Cln locali, per cui si rimanda alla informata bibliografia divulgativa di Aldo G. Ricci). Funzionale alle esigenze di una classe politica che si apprestava a governare il paese secondo metodi ed istanze assolutamente tradizionali, fu la costruzione di una percezione dei partigiani come di patrioti, in lotta contro l’invasore straniero, supportato dai traditori fascisti e repubblichini, nel nome degli ideali libertari, democratici ed egualitari che la carta costituzionale raccoglie nei primi tredici articoli (ossia quelli che contano meno).
Così, mentre il mondo dei reduci partigiani ricostruiva, nella delusione e nel vuoto di senso individuale e collettivo, una memoria più intima e più consapevole dei propri meriti, delle colpe, dei fallimenti, degli eroismi e delle mediocrità (i romanzi per nulla roboanti ed idealizzanti di Beppe Fenoglio basterebbero da soli a renderne l’idea), la retorica ufficiale di Stato e di Partito marciava per la propria strada tappezzata di allori mai cercati, creando la cosiddetta “Vulgata sulla Resistenza”, come ebbe a chiamarla De Felice. Solo che quella retorica non fu che in minima parte la voce di quanti la Resistenza la avevano effettivamente vissuta.
Certo molti si lasciarono strumentalizzare, molti accettarono ruoli dalle istituzioni e non poterono sottrarsi al generale oblio di una verità scomoda, nella sua straordinaria umanità: il primo atto dell’esperienza partigiana, l’atto fondante, la “scelta da cui tutto dipese” (nelle parole sempre alte e lucide del comandante Maino, alias Luchino Dal Verme) fu una fuga.
La fuga di soldati senza ordini, di un esercito sconfitto; la fuga di soldati traditi dal Re e dal Duce, che mai e poi mai avrebbero voluto ritornare a combattere per quei medesimi tromboni incapaci che li avevano spediti a morte certa, solo per avere qualche migliaio di morti da far pesare al tavolo delle trattative. Ecco il peccato inconfessabile di un fenomeno di massa che conobbe la sua prima rete di spontanea e generosa solidarietà nel dare soccorso ai soldati in fuga dai tedeschi ed ai renitenti ricercati dalla Rsi. Ma ecco anche il primo formidabile lascito di un gruppo (che importa se grande o piccolo) in cui ciascuno ha imparato a ‘decidere’, vede la realtà coi propri occhi di individuo debole e non di pedina strumentale alle esigenze del potere, superando le categorie falsate e imbecilli di ‘onore’ e di ‘patria’ e non si vergogna di chiedere, per sé, per il proprio popolo e per tutti i popoli, la ‘pace’ senza se e senza ma. La SCELTA impone la fuga: si va in montagna. In montagna si deve sopravvivere e soprattutto ci si deve difendere: ecco l’organizzazione militare, il vero motore delle scelte dei gruppi partigiani, che si rendono conto di avere di fronte forze superiori e che pertanto non vanno troppo per il sottile circa le ideologie e le convinzioni. Chi ne è capace, comanda; chi è in grado di ottenere il rispetto di tutti, ex - militari e non, impartirà loro gli ordini necessari: al cattolicissimo conte Luchino Dal Verme verrà pertanto dato il comando della divisione Gramsci, e non sarà un caso isolato. Naturalmente l’imminente fine della guerra, le problematiche suggerite da una percezione di ruoli e gerarchie democraticamente reinterpretata, oltre che l’effettiva possibilità di gestire amministrazioni e strutture nelle aree liberate, saranno i moventi di una profonda ed eclettica autoeducazione politica: il problema concreto e l’ideale sognato fanno sentire la propria voce in un panorama di programmi e di istanze assai vario, su cui, nei fatti, l’azione per così dire catechistica dei commissari politici si impone soltanto a fatica, anche se, naturalmente, la grande maggioranza si dichiara marxista.
Alberto Bevilacqua nel suo Sull’utilità della storia avverte che la vera storia, la storia che ha un peso nella costruzione della nostra percezione della realtà – una costruzione che sia paziente, quotidiana ed empirica, non isterica, strumentale e sclerotizzata in sterili ‘idealtipi’ – può partire solo da domande poste con sincerità intellettuale ad una pluralità di fonti diversificate e confrontabili.
Le questioni brevemente e superficialmente proposte – circa il ruolo del pacifismo, della presa di coscienza individuale, delle esigenze concrete dettate dalla lotta di sopravvivenza al nazifascismo, nel determinare i tratti distintivi del movimento resistenziale – dovrebbero contribuire a suggerire una risposta rispetto ad una letteratura, più o meno seria, che sempre più spesso allontana i giovani, più che avvicinarli, alla storia dell’antifascismo.
Nella faticosa lotta per la difesa delle nostre libere coscienze, è infatti a questa storia – e solo ad essa – che possiamo rivolgerci quale fondamento di una battaglia culturale che sottragga la Resistenza al passato morto delle patrie nazionali difese dagli invasori (cardine della partigianeria perbenista verniciata di democrazia, in stile prima repubblica) ed a quello delle logiche fideistiche di partito sbriciolate assieme al Muro di Berlino (nelle quali la nuova vulgata revisionista vorrebbe confinare la Guerra di Liberazione, spostando tutto il peso del discorso storiografico, si fa per dire, sulla Guerra Civile), per restituirlo ad un presente bisognoso di tornare a credere nella pace, nella fratellanza tra i popoli, nel valore politico della progettualità utopica e spontanea, nel coraggio di combattere per il diritto di rifiutare di combattere.

RACCONTI PARTIGIANI - Fusco: "così giustiziammo Fiorentini" (n°3 - aprile 2010)

Sulla collina del piccolo paesino di Cigognola, in Oltrepò, sorge un antico maniero, di epoca medievale. La torre, oggi di proprietà di una certa Letizia Brichetto-Arnaboldi “in Moratti”,
si porta sulle spalle un pesante fardello, carico di doloree di morte.
Dopo l'8 settembre, mentre in tutto il centro-nord I talia infuriava una durissima guerra civile fra fascisti e nazisti da una parte, partigiani e alleati dall'altra, il castello di Cigognola divenne il quartier generale di un reparto di polizia militare che, per le gesta compiute, fino a pochi anni fa riusciva ancora a far venire i brividi lungo la schiena ai nostri nonni al solo sentirlo nominare. Si tratta della Sicherheits, meglio nota nella zona come “Sicherai”. Anche se il nome è tedesco, in realtà il reparto era costituito da militari repubblichini, più qualche tedesco che però lavorava da “battitore libero”. Scopo di questo reparto era la raccolta di informazioni sulle formazioni partigiane presenti nella zona, l'interrogatorio dei prigionieri, l'utilizzo di metodi coercitivi per ricordare alla gente del luogo a chi doveva fedeltà oltre a tutte quelle che comunemente vengono considerate le mansioni di una polizia militare.
I l comandante della Sicherheits era un ometto magrolino, che rispondeva al nome di Felice Fiorentini. A lui era stato affidato il comando della polizia militare, e sotto di lui questa polizia compirà delle azioni terribili. Durante la Liberazione, a Fiorentini toccò una sorte particolare, che è stata vissuta in prima persona e raccontata dal comandante partigiano della valle Versa, Cesare Pozzi, nome di battaglia, Fusco.
“I l 28 aprile ricevetti una telefonata che mi avvisava di precipitarmi alla caserma dei Carabinieri di Broni, che il colonnello Fiorentini era tenuto lì prigioniero e che bisognava spostarlo da quel posto perché la gente – racconta Fusco – aveva circondato la caserma ed era intenzionata a fargli la pelle”. Fiorentini era stato catturato la mattina da alcuni partigiani nei boschi appena fuori Mezzanino. Probabilmente, dopo essere stato abbandonato dai suoi uomini, Fiorentini voleva tentare di raggiungere Milano per consegnarsi agli americani. “La situazione era molto grave. La gente voleva Fiorentini, e noi non avevamo le forze per poterlo difendere. Decisi allora di spostarlo alla prigione di Stradella, ma la notizia corse veloce e gli assalti non tardarono ad arrivare. Tentai allora di trasferirlo a Montu Beccaria, in una piccola caserma dei Carabinieri, però lì sarebbe stato al sicuro, almeno così pensai.”
Non passò molto tempo, però, che la gente seppe dove il repubblichino era tenuto prigioniero e si riversò tutt'attorno la caserma. Fu in queste circostanze che Fusco ebbe l'idea della gabbia.
“Avremmo potuto portarlo in capo al mondo e ci avrebbero comunque trovati. Se la gente voleva vedere Fiorentini, allora noi lo avremmo mostrato loro. Fu in quella situazione che decidemmo di metterlo in una gabbia su di un camion e partire per Milano. Non mettemo mai le sue due figlie nude in un'altra gabbia accanto a lui. Questa è una sporca menzogna portata avanti da troppo tempo dai fascisti. Le sue figlie in quei giorni si trovavano in un campo di concentramento americano in Toscana.”
La gabbia venne fatta fare velocemente da un falegname; i partigiani vi misero dentro Fiorentini e partirono alla volta di Milano. “L'idea – spiega Fusco – era di consegnarlo al CLN milanese, perché fosse giudicato da un tribunale del Popolo. L'idea della gabbia funzionò, la gente lo insultò e in alcuni casì gli lanciò un po' di tutto ma la sua incolumità venne salvaguardata. Giungemmo a Milano nel tardo pomeriggio del 29, ma Italo Pietra, “Edoardo”, mi disse di portarlo al CLN di Voghera, che se ne sarebbero occupati loro del processo. In quell'occasione, quando Pietra si trovò di fronte Fiorentini, ricordo che tirò un pugno fortissimo contro il muro dicendo: Colonnello, io questo pugno dovrei darglielo in faccia per le nefandezze commesse dalla sua masnada in Oltrepò, al resto provvederà la giustizia, portatelo via!”.
I l Colonnello Felice Fiorentini venne portato a Voghera dove venne consegnato al comando partigiano. Giudicato da un tribunale del Popolo venne condannato alla pena capitale. La sentenza venne eseguita il giorno seguente, il 3 di maggio, alle Piane di Varzi, dove circa un anno prima la Sicherheits aveva fucilato tre partigiani.
I partigiani che il 25 aprile entrarono nel castello di Cigognola trovarono le stanze adibite all'interrogatorio dei partigiani con macchie che arrivavano fino al soffitto. Dei molti prigionieri che la Sicherheits interrogò in quelle stanze, diversi non vennero mai più trovati.

LA LOTTA DEGLI OPERAI ALCOA IN DIFESA DEL POSTO DI LAVORO (n°3 - aprile 2010)

I padroni licenziano, chiudono gli stabilimenti, delocalizzano, mettono in cassa integrazione. I servi dei padroni reprimono, manganellano ed incarcerano chi lotta per il proprio futuro.
Ma sono in aumento i casi di operai che si ribellano a questo sporco gioco di potere.

Il caso dell'Alcoa.
La lotta degli operai sardi per riuscire a mantenere il loro posto di lavoro è quotidiana, sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo possibile per riprendersi la loro dignità di lavoratori e il loro futuro.
L’unica risposta che hanno ottenuto è stata quella del manganello. Lo stato invece di salvaguardare il futuro degli operai continua a reprimere violentemente la loro lotta.

Lo scorso novembre la commissione europea impone alla multinazionale americana dell’alluminio Alcoa (due stabilimenti in Italia: Portovesme in Sardegna e Fusina nel Veneto, più tutto l’indotto, oltre 2mila posti di lavoro) di restituire le sovvenzioni avute dallo stato italiano sui prezzi dell’energia elettrica (giudicate un aiuto pubblico illegale). Dovendo pagare la “multa” e adattarsi a tariffe normali, i padroni dell’Alcoa iniziano a pensare di fare le valigie. Subito dopo l’annuncio di 2 settimane di interruzione della produzione, gli operai di Portovesme occupano lo stabilimento, sequestrando i dirigenti e continuando a lavorare. Pochi giorni dopo gli operai sardi vanno a Roma, per protestare contro la politica sporca e sfruttatrice della multinazionale, dirigendosi verso l’ambasciata statunitense dove sfondano i cordoni di polizia: un operaio finisce in ospedale per le manganellate in testa. La protesta si sposta sotto le finestre del ministero dello sviluppo economico. La Alcoa prende gli sconti di Scajola sull’energia e ritira per il momento la cassa integrazione.
A gennaio l’Alcoa ci riprova e annuncia 6 mesi di interruzione della produzione e di cassa integrazione a partire dal 6 febbraio. Si tratterebbe solo di un’anticamera della chiusura definitiva. I lavoratori reagiscono: blocchi stradali ripetuti sia a Portovesme che a Fusina, con barricate incendiate sulla statale, ferrovie bloccate e nuova protesta a Roma sotto l’ambasciata americana. Bloccato per ore l’aeroporto di Cagliari, ancora una volta le forze dell’ordine hanno caricato i lavoratori. Il 2 febbraio 800 operai sono a Roma per far sentire la propria voce durante l’incontro a palazzo Chigi tra governo, padroni dell’Alcoa e sindacati. Ancora nessun risultato utile, la trattativa viene rinviata ad incontri successivi. Pochi giorni dopo la Sardegna è bloccata da uno sciopero generale per la difesa dei posti di lavoro, con un corteo di decine di migliaia di lavoratori che attraversa Cagliari.
Il 4 marzo un gruppo di lavoratori dell’Alcoa raggiunge gli operai della Vinyls di Porto Torres all’Asinara. Questi lavoratori rischiano di perdere il lavoro per i tagli decisi dall’Eni e, per richiamare l’attenzione, hanno occupato l’ex carcere di massima sicurezza dell’isola, ribattezzandola l’“isola dei cassintegrati”.
Il 17 marzo viene approvato in via definitiva il decreto chiamato “salva-Alcoa”, che assicura alle grandi imprese di Sardegna e Sicilia prezzi scontati sull’energia elettrica. Dovrebbe essere sufficiente a convincere la multinazionale americana a riprendere la produzione, ma anche su questa legge dovrà comunque decidere la Commissione europea. Ancora una volta gli operai dell’Alcoa sono presenti sotto i palazzi di governo per farsi sentire.

Solidarietà agli operai sardi che continuano la loro lotta a testa alta.
Solidarietà a tutti gli operai che lottano per difendere il loro posto di lavoro ed il loro futuro.
Solidarietà ai famigliari di tutti gli operai che continuano a morire sul posto di lavoro, perché è inconcepibile che di lavoro si possa morire.

LA CRISI A PAVIA E PROVINCIA. INDOVINA CHI LA PAGA (n°2 - novembre 2009)

I lavoratori di Pavia e provincia stanno continuando a pagare gli effetti della crisi. Nei primi 6 mesi dell’anno la produzione industriale in provincia è scesa del 9% rispetto al 2008, con un crollo a luglio: -27%. I dati continuano a presentare tutti il segno meno davanti anche a settembre, sia a livello nazionale sia locale. Più di metà delle imprese ha fatto ricorso alla cassa integrazione, con punte del 90% nel calzaturiero vigevanese, per un totale, quest’anno, di più di 8 milioni di ore (4 volte in più rispetto a tutto il 2008). Con la fine di agosto, solamente nel settore metalmeccanico, 1800 operaisono passati dalle ferie direttamente alla cassa. In molti casi è terminata o sta per finire la cassa ordinaria e la situazione rimane incerta. Dal primo agosto sono in cassa integrazione straordinaria i 1 80 operai della Brasilia di Retorbido, nel vogherese, produzione di macchine per il caffè. Lo stesso stato di incertezza riguarda più di 500 lavoratori di alcune importanti aziende lomelline: i 96 della Sigma, ancora in attesa di un nuovo acquirente, i 1 25 della Comez, i 96 tessili della Mapier, in cassa straordinaria da aprile, le 30 operaie della Mecab, i 190 della Cablelettra, componentistica per auto, il cui destino è in mano a un commissario straordinario dopo la messa in liquidazione per insolvenza. Dal dicembre 2008 è in liquidazione la Maut di Medassino, realizzazione e installazione di macchine utensili personalizzate, sia in Italia sia all’estero, 30 dipendenti attualmente in cassa straordinaria. Va verso la liquidazione anche la Massoni di Stradella, con 40 dipendenti che stanno pagando per i contrasti tra i due fratelli-padroni. In più si trovano a trattare con una proprietà che non rispetta le regole, visto che la cassa straordinaria è stata comunicata senza il preavviso e le consultazioni tra le parti previste dalla legge. A inizio ottobre gli operai hanno annunciato lo sciopero ad oltranza, in attesa degli incontri con il liquidatore e con la regione.Qualcuno dice che l'ampio ricorso alla cassa integrazione significa che licenziamenti e chiusure non sono massicci. Intanto i posti persi negli ultimi due anni in tutta la provincia hanno superato i 3200 e sono circa 2000 da gennaio. Senza dimenticare chi non rientra nelle statistiche semplicemente perché non ha diritto agli ammortizzatori sociali, ovvero tutti i precari lasciati a casa da un giorno all’altro, senza seccature per il padrone e a costo zero per le istituzioni.Con l’estate ha chiuso, dopo anni di crisi, lo stabilimento Cagi ùMaglierie di Cilavegna, lasciando senza lavoro i 37 dipendenti. Saltate le trattative sul ridimensionamento e sui bonus, a luglio la Cielle di Casteggio ha licenziato 30 operai. Il giudice del lavoro dovrà stabilire se l’azienda ha agito in modo legittimo. Da inizio settembre sono senza lavoro i 34 dipendenti dell'ormai ex cartiera di Torremenapace, vicino a Voghera: solo in 1 2 hanno trovato un posto, quasi tutti precario. Ai primi di ottobre la Fiscagomma di Vigevano, produzione di simil-pelle per calzaturiero e arredamento, ha aperto la procedura di mobilità per 55 dei 1 50 dipendenti, dopo un lungo periodo di cassa integrazione. Il 21 novembre scadrà l’anno di cassa straordinaria per 33 dei 1 03 operai della Record di Garlasco, materiali per l’edilizia. Si tratta solo di esempi, la situazione di crisi è generalizzata e riguardain molti casi piccole attività che quando chiudono o tagliano il personale non fanno notizia (per esempio, sui 214 licenziati di luglio, 181 lavoravano in impresesotto i 1 5 dipendenti). È particolarmente dura lasituazione dell’edilizia: in questo settore c’è stato un calo del 20 dell’occupazione (1200 posti persi negli ultimi 1 2 mesi) e sono in aumento gli episodi di padroni indebitati che all’improvviso smettono di pagare gli stipendi. Intanto cresce il lavoro nero e diminuiscono i tempi di esecuzione: non sono un caso i 4 morti nei cantieri della provincia negli ultimi tre mesi.Un discorso a parte è quello della Eckart di Rivanazzano: qui la crisi c’entra fino a un certo punto, visto che i bilanci erano in attivo e gli ordinativi c’erano. Lamultinazionale delle vernici ha comunicato a inizio settembre di voler chiudere lo stabilimento, fregandosene di 70 lavoratori, per godere degli sgravi fiscali concessi dal governo tedesco a chi riporta l’attività in Germania.Il lungo sciopero non è bastato a mettere in discussione lo smantellamento della fabbrica. Dal 201 0 rimarrà a Rivanazzano solo la commercializzazione della Eckart, che occuperà una decina di persone. Tutti gli altri hanno ottenuto un anno di cassa straordinaria prima del periodo di mobilità, più un “buono uscita”che andrà da 20 a 50mila euro per dipendente. Con la prospettiva di dover trovare un nuovo lavoro in un periodo nero e in una zona già colpita da diverse chiusure, tra cui quella della Ilva di Varzi con 80 posti di lavoro bruciati meno di un anno fa.

LAVORATORI SENZA PADRONI L'AUTOGESTIONE DELLE FABBRICHE IN RISPOSTA ALLA CRISI (CASO DELL'ARGENTINA) (n°2 - novembre 2009)

Durante gli anni della dittatura militare (1976-83) il debito pubblico argentino passa da 8 a 45 miliardi di dollari ed inizia il processo di consegna del paese in mano al Fondo Monetario Internazionale e alle multinazionali Usa. Col ritorno ai poteri civili da questo punto di vista cambia poco: i governi continuano a indebitarsi, alimentando la voragine del debito pubblico.All’origine della crisi del 2001 -2002 c’è la politica di “dollarizzazione” dell’economia, cioè l’“aggancio” della moneta nazionale (il peso) al dollaro (con un rapporto 1 a 1 ): in pratica una sopravvalutazione della moneta per evitare l’inflazione. Contemporaneamente i governi portano avanti una radicale privatizzazione del patrimonio economico e produttivo argentino in tutti i settori: industria, agricoltura, servizi. Nel periodo 1990-96 (in particolare con il governo di Carlos Menem) oltre 60 grosse imprese pubbliche vengono svendute a multinazionali americane, francesi, spagnole, britanniche e anche italiane. Queste multinazionali non si addossano i debiti (che rimangono un peso per il paese) delle imprese argentine da loro acquistate. Non è un caso se la stampa americana parla di “miracolo Menem”.Dopo la vendita delle aziende pubbliche, il governo riprende a indebitarsi all’estero, pagando tassi di interesse molto alti per far fronte alla spesa pubblica. Nel 2001 il debito pubblico raggiunge i 150 miliardi di dollari, quello privato i 60 miliardi. Di fronte alla situazione che si mostra già molto grave, a fine 2000 l’Argentina ottiene un prestito di 40 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. Per avere questi soldi vengono accettate delle condizioni molto dure, pagateguarda caso dai lavoratori: tagli alla spesa sociale, ribasso dei salari e delle pensioni. E ilprestito serve solo ad aumentare l’indebitamento.La crisi esplode anche per effetto di una più ampia crisi mondiale e di un rallentamento degli USA. Il 5 dicembre 2001 , in questa situazione, il Fmi rifiuta di concedere altri 1 ,26 miliardi di dollari. Il governo argentino prende alcune decisioni infami, convertendo il debito privato estero in debito pubblico, tagliando del 1 3% i salari statali e le pensioni, impedendo ai cittadini di disporre liberamente dei risparmi messi in banca. Il 18 dicembre, col peso che viene svalutato e inizia a perdere valore, le banche straniere ritirano 40 miliardi di dollari in contanti nel mezzodella notte. La gente li vede sfilare in blindati scortati dalla polizia.Milioni di persone scendono in strada e iniziano gli scontri. L’Argentina ha 5 presidenti in 3 settimane. In pochi mesi 1 /3 degli argentini rimane disoccupato e oltre il 40% della popolazione sprofonda sotto la soglia di povertà. Iniziano a nascere assemblee popolari in quasi ogni quartiere di Buenos Aires, i piqueteros passano all'offensiva e la sinistra si sente fiduciosa in un'impresaa cui non credeva nessun gruppo o partito. Un nuovo modo di portare avanti una lotta rivoluzionaria della classe lavoratrice non nelle strade, ma nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere e nelle officine; una lotta che si vince non perché cade un presidente, ma espropriando la borghesia e distruggendo lo Stato con tutte le altre istituzioni burocratiche, mentre si costruiscono dal basso le nuove istituzioni della democrazia diretta.Nel paese le attività manifatturiere non hanno beneficiato delle misure economiche degli ultimi decenni, con conseguente declino dell'industria argentina, e la risposta delle tute blu argentine è l’occupazione delle fabbriche.La prima fabbrica occupata è nel 1995 la Yaguanè, nel 1 998 viene presa l'IMPA. Nel 2000, nel distretto di Avellaneda (Buenos Aires), 90 metalmeccanici della GIP si impadroniscono dell'azienda e costituiscono la Cooperativa Union y Fuerza. Sempre loro nel gennaio 2001 , dopo aver pagato una indennità, aprono una fabbrica in una località in cui vi erano stati più di 1000 fallimenti aziendali negli anni precedenti. Sempre nel 2001, la fabbrica di laterizi Zanon di Neuquen e la fabbrica tessile Brukman di Buenos Aires vengono abbandonate dai padroni e rilevate dai lavoratori: La Brukman viene occupata il 18 dicembre 2001 . Jacob Brukman, l'ex-proprietario, fa sgomberare i lavoratori il 1 8 aprile del 2003, ma nell'ottobre dello stesso annola fabbrica viene dichiarata fallita, le operaie la espropriano e la restituiscono alla cooperativa 1 8 de Dicembre. Le operaie riprendono la produzione al canto di "Aqui estàn, estas son, las obreras sin patron". Nel frattempo le operaie presidiano lo stabilimento per 6 mesi sotto la costante minaccia di un sabotaggio da parte del padrone.Altre fabbriche occupate incominciano a dare i primi impulsi positivi, come la Zanon che incrementa la produttività e crea nuovi posti di lavoro (ora ci sono 250 operai).Oggi vi sono circa 200 aziende occupate e circa 1 0.000 operai che prendono parte a questa esperienza di lavoro collettivo.È l’avventura di un cambiamento politico, la realizzazione dell’utopia di un’azienda autogestita dai suoi operai secondo un principio di vera democrazia diretta, per reagire al crollo economico e sociale determinato dalla politica capitalista neoliberista dei governanti.In Italia sono moltissimi i casi di fabbriche che chiudono la produzione causando licenziamenti o mettendo gli operai in cassa integrazione o in mobilità, ma a questa politica speculativa sulle teste delle tute blu, gli operai rispondono a muso duro e rispondono basta con le speculazioni, basta con la delocalizzazione del lavoro, che lascia migliaia di famiglie senza un reddito.Un esempio di lotta che ha tenuto duro fino alla vittoria è stata quella degli operai della INNSE. Si sono verificati altri esempi di ribellione operaia: come gli operai della Ercole Marelli a Sesto San Giovanni che hanno occupato la fabbrica, un presidio della fabbrica alla Manuli diAscoli Piceno nelle Marche, gli operai della Bulleri Brevetti di Cascina (Pisa) che hanno bloccato la fabbrica con un presidio permanente davanti ai cancelli, gli operai della ESAB saldature sul tettodella fabbrica, come gli operai della Metalli preziosi e Lares di Paderno Dugnano, costretti per nove giorni e otto notti sul tetto, i 2.200 operai della Eutelia Agile (ex Olivetti e Bull) che non ricevevano lo stipendio da giugno come atto politico dimostrativo hanno sequestrato il consigliere di amministrazione, occupando successivamente lo stabilimento di Roma e poi quelli di Milano e Ivrea, 150 operai della Alstom di Colleferro (Roma) contro la manovra di mobilità hanno preso la decisione di sequestrare tre manager come gesto dimostrativo, sempre a Roma i 38 operai della Nortel Italia vengono cacciati dalla fabbrica, 10 operai della Ideal Standard di Belluno salgono sultetto per lottare in difesa del taglio dei 250 posti di lavoro, in concomitanza con l’occupazione della fabbrica bresciana, 5 operai della Fincantieri (Castellamare di Stabia) sul tetto della fabbrica per protestare contro la cassa integrazione, gli operai della Adelchi occupano simbolicamente il comune contro la politica del padrone che non paga gli stipendi in arretrato, contro la manovra della cassa integrazione in scadenza, con la costante incertezza sul riavvio dell’attività produttiva. Gli operai della Texo di Alessandria occupano lo stabilimento contro lo smantellamento dalla fabbrica, presidio permanente davanti allo stabilimento dall’Alfa romeo di Arese contro la manovra di chiusura dello stabile.Formazioni squadriste entrano nelle fabbriche condotte dal padrone: anche questo può accadere in Italia, è successo nello stabilimento dell’Agile, ex Eutelia. Il padrone della fabbrica Samuele Landi si è presentato con una quindicina di scagnozzi per intimidire i lavoratori e far sgombrare compagni che hanno occupato lo stabile contro il licenziamento di 1 .200 addetti.Sono sempre di più le fabbriche italiane che iniziano o che continuano la lotta contro la chiusura del posto di lavoro, il grido degli operai di tutta Italia è lo stesso: giù le mani dalle officine.Contro politiche speculative, contro la delocalizzazione del lavoro, contro una politica capitalista che opprime e sfrutta le classi lavoratrici, contro lo sfruttamento padronale esiste una soluzione: cacciamo via i padroni e riprendiamoci le officine. L’autogestione è l’unica strada possibile per uscire da questa crisi che non sono stati gli operai a provocare ma solo un modello capitalista in declino. Perchè la crisi del vostro sistemasfruttatore dovremmo pagarla noi? È arrivato il momento di dire basta, di alzare la testa e di lottare per un modello di autogestione. Le fabbriche agli operai e non nelle mani di un aguzzino che ti sfrutta, si arricchisce sulle tue spalle e che quando non ha più bisogno di te ti caccia a calci nel culo.
SOLIDARIETÀ A TUTTI GLI OPERAI CHE OGNI GIORNO DICONO NO E LOTTANO PER IL LORO POSTO DI LAVORO.IN MEMORIA DI TUTTI GLI OPERAI CADUTI SUL POSTO DI LAVORO

TRENITALIA:APPALTI E SUBAPPALTI NELLE PULIZIE,QUALCOSA SI MUOVE (n°2 - novembre 2009)

Il 12 agosto è stato siglato a Roma tra Trenitalia, i sindacati e l’azienda Dussmann Service un accordo che prevede l’affidamento temporaneo a questa società di tutta la pulizia dei trenidell’alta velocità.Questo è un primo passo avanti per smuovere uno scenario da anni fossilizzato e dominato da aziende che hanno dimostrato, in nome del profitto, un totale disinteresse verso i lavoratori,la qualità del servizio e le migliaia di pendolari e utenti che quotidianamente utilizzano i treni per spostarsi. La principale protagonista della mala gestione di questo settore negli ultimi otto anni è stata la Pietro Mazzoni Ambiente, storicamente di proprietàdell’imprenditore Pietro Mazzoni e ora intestata ad una simpatica vecchina sul letto di un ospedale. Questo “passaggio di testimone” è stato inevitabile visti i troppi guai legali (denunce, vertenze sindacali, ricorsi al Tar della committente ecc…) piovuti addosso al sig. Mazzoni negli ultimi tempi. L’impegno dei lavoratori e del sindacato è di fare leva sulle aziende committenti (Trenitalia e RFI in testa) per una graduale cacciata della Mazzoni Ambiente dal settore appalti ferroviari e per il conseguente fallimento del piano strategico di questo “signore” che negli anni, sulla pelle dei lavoratori, ha mangiato soldi pubblici, corrotto chi controllava l’operato della sua azienda (comprese alcune sigle sindacali) e permesso il dilagare di attività mafiose nei luoghi di lavoro (a coronare il tutto c’è la dichiarazione di un finanziere pentito che racconta degli incontri tra Pietro Mazzoni e Licio Gelli nella villa del “gran maestro”).Purtroppo questo è il caso più eclatante, ma altre aziende si sono distinte per comportamenti arroganti e antisindacali. Il tentativo di portare aria nuova in questo settore e un po’ di tranquillità e dignità ai lavoratori ha avuto inizio a seguito dell’uscita dei bandi di gara per l’assegnazione dei servizi di pulizia a metà del 2008. Nelle varie regioni si sono susseguiti, da parte delle aziende escluse a vario titolo dalle attività, una serie di ricorsi agli organi preposti e in molti casi tentativi di pressioni sui lavoratori , utilizzati mediante minacce di licenziamento, stipendi non erogati e altre bassezze, come grimaldello per bloccare le gare d’appalto in corso.A peggiorare ulteriormente la situazione ci hanno pensato le aziende associate a FISE e ASSOFER (associazioni datoriali del settore pulizie). Il loro tentativo è stato quello di cercare di sganciare questo settore dall’applicazione del contratto della mobilità (risultato che il sindacato anche di questo settore ha raggiunto, non senza fatica, con l’accordo del 14 aprile 2009), molto più tutelante e remunerativo rispetto ad altri contratti delle pulizie industriali e civili.Tramite un accordo con Trenitalia e successivi accordi locali diperfezionamento i lavoratori hanno ottenuto e fatto applicare a questo primo cambio d’appalto, la garanzia di piena applicazione per i lavoratori interessati sia degli aumenti contrattuali concordati e sia della una tantum relativa all’anno 2008 e ai mesi del 2009 precedenti al cambio di appalto. La modalità di pagamento della una tantum prevede che Trenitalia trattenga l’importo da erogare ai lavoratori dalle ultime fatture destinate alle aziende uscenti e inadempienti agli obblighi contrattuali (Pietro Mazzoni in primis) e lo versi alle aziende subentranti che lo corrisponderanno al personale assorbito. Questo meccanismo garantisce a tutti i lavoratori la piena tutela salariale e alla committente nonché garante Trenitalia la certezza di non doversisobbarcare oneri frutto di mancanze delle aziende uscenti.Inoltre, al fine di tutelare concretamente la piena occupazione, è stato concordato che, le aziende subentranti dovessero obbligatoriamente applicare il contratto della mobilità e che tutto il personale diretto ed indiretto (quindi proveniente da un eventuale sub appalto) che era in attività al momento dell’uscita del bando di gara, trovi una collocazione nelle nuove aziende vincitrici delle gare d’appalto mantenendo invariato salario e inquadramento professionale. Una ulteriore forma di garanzia è rappresentata dalla possibilità che, al termine di tutti i cambi d’appalto, si metta in atto una sorta di ridistribuzione per collocare tutti i lavoratori che per diverse ragioni siano stati esclusi dai processi di cambiamento. Nel frattempo, utilizzando le possibilità che i nuovi scenari hanno messo a disposizione del sindacato, sono stati utilizzati gli accordi locali per eliminare, almeno per il momento, le aziende in subappalto, spesso fonte diinnumerevoli problemi, il tutto senza perdere alcun posto di lavoro e facendo così assumere circa 250 lavoratori alla prima azienda subentrante. Questo è sicuramente un grande risultato in virtù del fatto che fino a tre anni fa i lavoratori di questo settore collocati in sub appalto erano circa 500 e facevano riferimento ad almeno cinque cooperative di cui spesso non si conosceva il presidente, la sede e i responsabili e dove più di una volta è stata riscontrata la presenza di lavoro nero.Con un altro accordo raggiunto, dal 19 ottobre altri 1 05 lavoratori hanno cambiato casacca e si aggiungono a coloro che hanno raggiuntola piena applicazione contrattuale, tutti i dirittiriconosciuti e la dignità di chi svolge con dedizione il proprio lavoro.

I VIGILI DEL FUOCO IN AGITAZIONE PER IL CONTRATTO E LE CONDIZIONI DI LAVORO (n°2 - novembre 2009)

Martedì 10 novembre a Pavia si è svolta una manifestazione dei vigili del fuoco lombardi, per protestare contro la situazione durissima che si trovano ad affrontare: il contratto nazionale è scaduto nel dicembre 2007, le assunzioni non coprono il turnover (assunti solo 600 vigili del fuoco in tutta Italia, con una carenza preesistente di almeno 4 mila unità e con 700 nuovi pensionati a fine anno), gli automezzi non vengono rinnovati, non vengono acquistate nuove attrezzature, si effettuano una marea di straordinari senza la certezza di quando saranno pagati, ci sono ritardi nei pagamenti per alcuni dei servizi svolti. Dopo un presidio davanti al comando di viale Campari, alcune centinaia di lavoratori hanno attraversato la città in corteo fino a portare la protesta in prefettura.
Di fianco ad una lotta più larga, a livello nazionale e regionale, l’agitazione pavese va avanti ormai da fine agosto.
La situazione dei circa 150 vigili del fuoco pavesi è particolarmente grave prima di tutto per quanto riguarda la mancanza di personale. Le carenze di organico riguardano soprattutto i capisquadra e i capireparto: mancano 10 dei primi e dei secondi ce ne sono soltanto 2 (su 16 previsti). Come se non bastasse, la carenza riguarda anche l’ambito amministrativo, dove si è sotto di 4 persone.
La principale conseguenza è una diminuzione della sicurezza sul lavoro. Da un lato perché se si è in pochi capita di uscire in squadre composte da meno dei 5 elementi previsti, rendendo più difficile il lavoro e in particolare affrontare situazioni di pericolo (visti anche i mezzi a disposizione, non certo all’avanguardia). Dall’altro lato perché sono proprio le figure mancanti, capisquadra e capireparto, quelli che aggiornano tutti gli altri lavoratori proprio in materia di sicurezza. E si tratta di un settore in cui la formazione continua è ovviamente fondamentale.
Come denunciano i lavoratori, dopo la retorica dei pompieri “angeli del terremoto” e tutte le parole dei politici, le condizioni organizzative ed economiche continuano a peggiorare.
I vigili del fuoco continuano la loro lotta per migliori condizioni di lavoro e per un rinnovo del contratto nazionale che aspettano ormai da due anni. Gli stipendi infatti sono fermi: un lavoratore con 20 anni di esperienza, che lavora su turni di 12 ore, chiamato ad interventi straordinari (basta pensare al terremoto abruzzese) non va oltre i 1300 euro mensili. In attesa di nuovi incontri al ministero degli interni, l’agitazione continua.

IMMIGRAZIONE. NULLA DA PERDERE (n°2- novembre 2009)

«Il Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria è al collasso. Deve essere chiuso». Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma

Dopo una straordinaria campagna mediatica il governo è riuscito ad approvare il pacchetto sicurezza. Ennesima drastica misura che sancisce definitivamente la perdita da parte dei cittadini extracomunitari dei più elementari diritti della civiltà liberaldemocratica.Ciò per cui lottiamo non risiede certamente in questi vacui principi, ma la violazione di essi cidimostra come questo governo sia riuscito a far cadere il paese in un sonno pesante nel quale anche i “sinceri democratici” sono finiti. Sia ben chiaro le colpe non risiedono solamente nella figura di Maroni, ma si possono individuare nell’assetto economico-sociale contingente.Per analizzare la parabola del razzismo italiano è però necessario partire dal 1 998. In quell’anno il governo di centro-sinistra approva la legge Turco Napolitano e istituisce i tristemente noti CPT. Centri di reclusione per stranieri in attesa di essere espatriati. Semplificando prigioni in cui rinchiudere i clandestini che non sono entrati,o sono stati espulsi dall mercato del lavoro nerogestito dal caporalato italiano, che protegge la sua forza lavoro ammassandola in condizioni disumane. Oltre all'introduzione delle galere per migranti la Turco Napolitano porta con sé un nuovo soggetto, introducendo un principio che ispirerà la catastrofica legge Bossi-Fini. Il soggetto in questione è il garante per l'inserimento nel mercato del lavoro dell'immigrato. Una sorta disponsor per restare in Italia. Il principio, a cui facevo riferimento sopra, è quello che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro.Questo sarà il perno sul quale verrà costruita la tristemente nota Bossi- Fini. Permesso di soggiorno rilasciato a chi ha già un contratto di lavoro. Manna dal cielo per gli sfruttatorinostrani di clandestini, che possono ricattare in qualsiasi modo i lavoratori.Per chi viene licenziato o per chi resta senza contratto ci sono due possibilità: diventare clandestini oppure essere espulsi. Da notare è il quadro teorico che questa legge utilizza, il migrante perde il suo status di persona per divenire merce. L'unica importanza che gli viene attribuita è quella di essere forza lavoro ricattabile e di facile reperibilità. I padronipossono così utilizzare questa nuova manodopera per un livellamento verso il basso dei salari, generando la nota guerra tra poveri. La grossa ricattabilità fa cadere i lavoratori immigrati nell'impossibilità di portare avanti lotte nei posti di lavoro. Il loro basso salario scatena le ire degli altri lavoratori italiani che attribuiscono a loro la causa della disoccupazione e vedono in loro una concorrenza sleale.Il divide et impera ancora regge, d'altronde si sa: la lotta di classe è il “motore della storia” e i capitalisti di oggi, come quelli di ieri, fanno di tutto per metterci grossi granelli di sabbia.Tornando all'istituzionalizzazione del razzismo riparto dal già citato pacchetto sicurezza che da luglio sta sconvolgendo la vita dei migranti in Italia. Introduzione del reato diimmigrazione clandestina , introduzione delle ronde, ripristino del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, tassa per il permesso di soggiorno, accesso precluso ad asili nido,anagrafe e medico di base per i clandestini. Queste alcune delle nuove leggi che cancellano qualsiasi diritto per i clandestini. In pochi mesi si sono già registrati diversi decessi causati dalla paura di essere denunciati una volta entrati nelle strutture del servizio sanitario pubblico, alla faccia del diritto alla salute. I clandestini hanno paura. Paura della polizia, paura degli italiani, paura dei padroni. In molti restano rinchiusi in casa ed escono solo se strettamente necessario. Stanno facendo delle abitazioni delle piccole carceri in cui uscire solo per vendere la propria forza lavoro in nero.I luoghi simbolo della politica razzista hanno cambiato nome, non più c.p.t., ma c.i.e. Il pacchetto sicurezza ha allungato il periodo di detenzione in questi lager da tre a sei mesi.E' li dentro che qualcosa si sta muovendo. Da mesi ormai i reclusi protestanocontro le condizioni di vita: Gradisca, Torino, Milano, Ponte Galeria stanno creando grossi grattacapi al governo e alle forze dell'ordine. I prigionieri distruggono muri, battono sulle sbarreevadono e protraggono gli scioperi della fame per giorni. I solidali da fuori organizzano cortei, presidi e si tengono in stretto contatto con l'interno. Quellli che stanno dentro nonhanno nulla da perdere, noi abbiamo la dignità da conquistare.Qui di seguito la testimonianza pubblicata da fortresseeurope di uno dei complici della macchinadelle espulsioni. Che l'indignazione lasci il posto alla rabbia...Una guardia di frontiera racconta la violenza ordinaria dei rimpatri coattiI rimpatri fanno parte del suo quotidiano. È agente della polizia di frontiera (PAF), grado: “guardiano della pace”, in servizio all’unità nazionale di scorta, di sostegno e di intervento (Unesi), con base a Rungins, e ha il compito di “riaccompagnare” gli stranieri espulsi nel loro paese d’origine.Ben voluto dai suoi superiori, non è né sindacalizzato né vicino all’età della pensione. Inizialmente non aveva intenzione di parlare con un giornalista. Un collaboratore di “Mediapart” ci ha messosulle sue tracce. E allora questo poliziotto si è convinto dell’interesse di dettagliare il funzionamento, dall’interno, della macchina delle espulsioni messa in moto da NicolasSarkozy.Ha accettato di parlare “in nome della trasparenza”, ma ha preferito restare anonimo per non essere identificato. Il suo racconto è pubblicato in due parti. Dalle manette alle cinghie, passando per i placcaggi al suolo e gli strangolamenti, la prima parte è dedicata ai metodi adoperati per costringere gli illegali a salire e restare sugli aerei che li riportano al paese che hanno voluto lasciare. Più appare banalizzato e camuffato più il ricorso alla violenza è risulta insidioso.«Abbiamo un’ora per convincere il tipo a partire»«Faccio una quindicina di rimpatri al mese. Ci chiamano un giorno prima della partenza, o al Venerdì per il fine settimana. Ci danno un dossier per la scorta, coi documenti della persona espulsa e la rotta aerea, gli ordini di missione che rimpiazzano le carte di polizia e le spese della missione. All’aeroporto si arriva due ore prima del volo. Si ha un’ora per conoscere il ragazzo, per vedere chi è, se ha un problema per esempio medico, se c’è qualche problema coi documenti. Equesta è quella che si chiama la “presa in carico della missione”. Ma si hanno poche informazioni. Abbiamo un’ora per convincere il tipo a partire e per caricarlo sull’aereo coi passeggeri normali. Questo succede all’ULE, l’Unità Locale di Allontanamento, di Roissy o di Orly, dove le persone sono messe in cella. L’ULE è la zona tampone tra il CRA [i Cie francesi, ndT] e l’aereo. Per l’Africa ci sono tre poliziotti di scorta, due per il resto del mondo.»«Risse sull’aereo»«Quando ci si azzuffa nell’ULE o sull’aereo è perché la maggior parte della gente non vuole partire. Si consideri che siamo pagati per rimpatriarli, non per infastidirli. Quindi gli spieghiamo e loro capiscono. E se non capiscono tanto peggio per loro. La regola immigrazione ufficiale, l’ordine di servizio, è che non dobbiamo scortarli a tutti i costi. Per esempio se un tipo è malato non lo metto sull’aereo. Il peggio è quando vomitano o si cagano addosso. Non c’è da ridere. Sputano e mordono, anche. Quando succedono questo genere di cose li si fa subito scendere, non si insiste. Solo per le ITF [interdizioni dal territorio] facciamo il possibile per farli partire perché hanno commesso delitti o reati gravi. Ad ogni modo chi non parte viene portato direttamente in prigione per due o tre mesi per violenza a pubblico ufficiale. Salvo che non venga riconosciuta la legittimità delle sue azioni dal giudice di Bobigny, perché a Bobigny ci sono giudici che sono completamente contro la polizia. È un distretto speciale. Per quanto riguarda le APRF [arresti prefetturali di rimpatrio alla frontiera] ai tipi spieghiamo che se non partono è da considerarsi un rifiuto, e che saranno messi su un altro volo alla fine della detenzione. Gli viene detto: “tu riparti comunque”. I tipi che vengono espulsi sono dei poveri ragazzi, ne siamo perfettamente consapevoli. Sono dei tipi che vengono a cercare lavoro. Noi gli spieghiamo: “non è un tiro mancino, so che non è divertente, ma sei obbligato a partire”, abbiamo un ora per spiegarglielo. Il problema è che laCimade [il principale gestore dei Centri francesi, ndT], e tutte le associazioni, gli montano la testa, gli procurano anche i lassativi eventualmente…»«Manette, cinture addominali e cinghie…»«Noi gli spieghiamo, se capiscono tanto meglio. Ma se vediamo che si agitano li mettiamo a terra con le manette, prima dell’imbarco, dietro l’aereo. Abbiamo una formazione iniziale che dura un mese, e riguarda ciò che abbiamo diritto di fare, ogni tre mesi c’è un aggiornamento, che vuol dire che si fa una sessione di formazione intensiva di un giorno. Con le persone di cui non ci fidiamo usiamo cinture di velcro che si mettono attorno la vita. Il ragazzo può avere le mani legate davanti, sullo stomaco. Al commissariato avevamo cinture di cuoio. Sono dispositivi abbastanza inadatti e funzionano male perché si regolano con degli strappi e i tipi tirano forte, e quando c’è un nero di 1 1 0 chili le strappa. Possiamo anche utilizzare delle cinghie da mettere sopra le ginocchia, sulle caviglie o sul petto. E se il tipo si dimena troppo ne tendiamo una tra le caviglie e il petto per evitare che dia colpi di testa. A volte attacchiamo un cuscino al sedile di fronte, per la stessa ragione. Per un po’ di tempo non abbiamo potuto usare le manette, solo perché c’è statodetto che costavano troppo. Quindi ci hanno dato manette di tessuto usa e getta, che sono completamente inefficaci, se non coi tipi tranquilli. Una volta stavo facendo un asiatico, il tipo è salito tranquillamente, era persino contento di tornare. In realtà era un attaccabrighe, abbiamo dovuto combattere durante il volo per due ore. Lo abbiamo domato, ma il problema è che con le manette di tessuto non lo si poteva legare, stava strangolando un mio collega, io gli sono saltato addosso, lui era atletico. È stata una missione di merda. Per fortuna i passeggeri non si sono mossi. Ora fortunatamente abbiamo delle vere manette di metallo. Se il ragazzo è tranquillo si evita la violenza, la coercizione, l’uso delle cinghie, le utilizziamo il minimo possibile. E di solitova molto meglio. Il manuale GTPI [tecniche professionali d’intervento] è lo stesso dal 2003. Per esempio la tecnica del “pliage” [che ha causato la morte di due deportati, nel 2003 e nel 2004] è severamente vietata in tutti i casi e noi non la usiamo mai. Nel nostro reparto non usiamo più i bavagli. Ma io metto le mascherine per impedirgli di sputare, sapete, quelle che si usano quando si usa la vernice.»«Lo strangolamento è perfettamente autorizzato, è nel manuale»«Il massimo che siamo autorizzati a fare è un tipo di strangolamento che chiamiamo “regolazione fonica”. Si tratta di fare delle pressioni sulla gola perché il tipo non gridi. È perfettamente autorizzato, sta nel manuale. Sennò quello che facciamo più spesso è di immobilizzarli a terra. Si mette il tipo a terra, lo si placca al suolo. Nelle nostre missioni abbiamo un rapporto di peso diciamo. Cioè che il totale del peso dei poliziotti della scorta deve essere il doppio del peso del tipo. Il fatto di essere in numero maggiore e di avere la possibilità di metterlo al suolo e immobilizzarlo ci evita di doverlo picchiare. Prima rifiutavo l’uso della forza, ma adesso, quando qualcuno è ottuso, gli facciamo capire subito che noi siamo più forti di lui, e una volta che l’ha capito iniziamo a ragionare. Gli africani a volte, fanno i duri e quando gli parli in modo gentile ti prendonoper un debole. Ma una volta che si ritrovano con la faccia per terra e le cinghie strette, che gli dici “com’è che ora fai meno il furbo, salame?”, là cominciano a rispettarti un po’. Io l’ho fatto un paio di volte, forse tre. So che ci sono colleghi con lo schiaffo facile, ma grossi bruti da noi ce ne sono molto pochi. Se li picchiamo gli diamo pugni nello stomaco, perché non si devono vedere i segni. Se poi il tipo si prende un sacco di botte, vuol dire che se l’è cercata, è già successo, attenzione, non ci giro intorno, ma c’è chi se lo merita. Per esempio quello che ha morso il dito a un poliziotto, quello là si è preso un sacco di botte, è sicuro, è comprensibile. Insomma, questo succede quando ci sono delle violenze su di noi o sull’equipaggio dell’aereo.»«Quando ci sono problemi i celerini usano i lacrimogeni nell’aereo»«Quando saliamo nell’aero, ci siamo noi, la persona rimpatriata, la polizia dei Centri di detenzione amministrativa, gli agenti dell’ULE, quindi siamo in parecchi poliziotti. Ma in caso di necessità, se servono rinforzi, chiamiamo i CIP, cioè la compagnia di intervento degli aeroporti di Orly o Roissy, che sono dei celerini. Loro sono meno formati di noi, sono loro che lanciano i lacrimogeni nell’aereo quando c’è un problema. Li chiamiamo solo quando ci sono operazioni da fare a bordo, quando siamo obbligati a far scendere gente che cerca veramente di far degenerare le cose. Ma quando si chiudono le porte, ci ritroviamo da soli. Noi siamo sempre in borghese, niente armi. In generale riusciamo sempre a far montare i tipi da espellere sull’aereo, è il nostro mestiere. Gridano, sbattono, spaccano i sedili a volte, le hostess piangono, vabbé. I problemi arrivano quando i passeggeri si mettono in mezzo. Ci sono stati dei filosofi peresempio. Gente che non sapeva niente ma che veniva a fare la parte dei giusti. Vedevano dei neri circondati da bianchi e gridavano allo scandalo. Quando magari il rimpatrio procedeva bene, e riuscivano a fare alzare tutti. In seguito, l’Air France è stata accusata di aver dato i nomi diquesta gente alla polizia. È vero, la ma quelli dell’Air France si erano rotti di farsi trattare da nazisti o da collaborazionisti.»«Il “rapporto di forza” con il comandante di bordo»«Giuridicamente, il comandante di bordo è quello che comanda dentro all’aereo daquando le porte sono chiuse. Ma prima comandiamo ancora noi. Se ci chiedono discendere, il capo missione dice: “no, finché le porte sono aperte noi non scendiamo”. Poi chiamiamo il nostro ufficiale e finché non arriva non ci muoviamo: e questo fa imbestialire tutti, è proprio una questione di rapporti di forza. L’ufficiale arriva, arriva la Celere, l’aereo non riesce a partire in orario e alla fine non può decollare e viene annullato. Questo, giuridicamente, è il massimo. Se scendiamo, perdono tutti. Gli ordini, poi, dipendono dagli ufficiali. Il problema è che la maggior parte di loro non vogliono scontrarsi direttamente con l’Air France. Una volta, alla Lufthansa bastava un colpo di tosse di un espulso e ci facevano scendere, preferivano cancellare un volo che fare un rimpatrio. L’Alitalia pure, e anche Royal Air Maroc. Adesso non facciamo più le compagnie africane, per fortuna, perché là veramente era difficile. A volte dobbiamo minacciare il personale di bordo, perché si dimenticano che siamo poliziotti, e che possiamodenunciarli per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, ma in generale va bene. Un comandante di bordo ci ha detto che durante un rimpatrio c’è stata una rivolta e che un ragazzo era stato calpestato. Noi ne si è perfettamente coscienti. Loro se vogliono decollare hanno tutto l’interesse di lasciarci sul volo. Una volta in volo di solito le cose vanno bene. Dipende dalla collaborazione dell’uomo e dalla fiducia dei colleghi e dell’equipaggio. Ma la maggior parte delle volte sleghiamo il ragazzo.»«Dobbiamo imparare a sbrogliarcela all’estero»Ci sono persone bilingue tra di noi per gestire le situazioni all’estero. Spesso i rapporti con la polizia locale non sono l’ideale. Possono fare dei problemi per via dei documenti, possono rifiutare il rimpatrio. In certi Paesi dell’Africa non ci amano, fanno prova di cattiva volontà. Di solito quando arriviamo ci aspetta la SCTIP, il servizio di cooperazione tecnica internazionale di polizia che fa capo all’ambasciata. In Sudamerica c’è l’Interpol che ci accoglie quando trasportiamo spacciatori e criminali. Nella maggior parte degli altri Paesi prendiamo contatto con le autorità locali. Gli trasmettiamo il dossier del tipo espulso, con tutto quello che ha fatto in Francia. Se è stato buono sull’aereo allora leviamo dal dossier tutti i documenti che potrebbero portarlo in prigione.In Tunisia, sistematicamente, gli espulsi si fanno tre giorni di carcere. In Algeria sonopiù simpatici, anche con gli espulsi. Anche in Marocco se la passano bene. Ci è successo spesso di riportare al paese loro dei delinquenti, la feccia proprio. Fanno i malandrini quando sono in Francia, ma quando vedono i poliziotti del paese loro imparano immediatamente le buone maniere. Fa piacere. Bisognerebbe farglieli fare più spesso, degli stages al loro paese.»