Durante gli anni della dittatura militare (1976-83) il debito pubblico argentino passa da 8 a 45 miliardi di dollari ed inizia il processo di consegna del paese in mano al Fondo Monetario Internazionale e alle multinazionali Usa. Col ritorno ai poteri civili da questo punto di vista cambia poco: i governi continuano a indebitarsi, alimentando la voragine del debito pubblico.All’origine della crisi del 2001 -2002 c’è la politica di “dollarizzazione” dell’economia, cioè l’“aggancio” della moneta nazionale (il peso) al dollaro (con un rapporto 1 a 1 ): in pratica una sopravvalutazione della moneta per evitare l’inflazione. Contemporaneamente i governi portano avanti una radicale privatizzazione del patrimonio economico e produttivo argentino in tutti i settori: industria, agricoltura, servizi. Nel periodo 1990-96 (in particolare con il governo di Carlos Menem) oltre 60 grosse imprese pubbliche vengono svendute a multinazionali americane, francesi, spagnole, britanniche e anche italiane. Queste multinazionali non si addossano i debiti (che rimangono un peso per il paese) delle imprese argentine da loro acquistate. Non è un caso se la stampa americana parla di “miracolo Menem”.Dopo la vendita delle aziende pubbliche, il governo riprende a indebitarsi all’estero, pagando tassi di interesse molto alti per far fronte alla spesa pubblica. Nel 2001 il debito pubblico raggiunge i 150 miliardi di dollari, quello privato i 60 miliardi. Di fronte alla situazione che si mostra già molto grave, a fine 2000 l’Argentina ottiene un prestito di 40 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. Per avere questi soldi vengono accettate delle condizioni molto dure, pagateguarda caso dai lavoratori: tagli alla spesa sociale, ribasso dei salari e delle pensioni. E ilprestito serve solo ad aumentare l’indebitamento.La crisi esplode anche per effetto di una più ampia crisi mondiale e di un rallentamento degli USA. Il 5 dicembre 2001 , in questa situazione, il Fmi rifiuta di concedere altri 1 ,26 miliardi di dollari. Il governo argentino prende alcune decisioni infami, convertendo il debito privato estero in debito pubblico, tagliando del 1 3% i salari statali e le pensioni, impedendo ai cittadini di disporre liberamente dei risparmi messi in banca. Il 18 dicembre, col peso che viene svalutato e inizia a perdere valore, le banche straniere ritirano 40 miliardi di dollari in contanti nel mezzodella notte. La gente li vede sfilare in blindati scortati dalla polizia.Milioni di persone scendono in strada e iniziano gli scontri. L’Argentina ha 5 presidenti in 3 settimane. In pochi mesi 1 /3 degli argentini rimane disoccupato e oltre il 40% della popolazione sprofonda sotto la soglia di povertà. Iniziano a nascere assemblee popolari in quasi ogni quartiere di Buenos Aires, i piqueteros passano all'offensiva e la sinistra si sente fiduciosa in un'impresaa cui non credeva nessun gruppo o partito. Un nuovo modo di portare avanti una lotta rivoluzionaria della classe lavoratrice non nelle strade, ma nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere e nelle officine; una lotta che si vince non perché cade un presidente, ma espropriando la borghesia e distruggendo lo Stato con tutte le altre istituzioni burocratiche, mentre si costruiscono dal basso le nuove istituzioni della democrazia diretta.Nel paese le attività manifatturiere non hanno beneficiato delle misure economiche degli ultimi decenni, con conseguente declino dell'industria argentina, e la risposta delle tute blu argentine è l’occupazione delle fabbriche.La prima fabbrica occupata è nel 1995 la Yaguanè, nel 1 998 viene presa l'IMPA. Nel 2000, nel distretto di Avellaneda (Buenos Aires), 90 metalmeccanici della GIP si impadroniscono dell'azienda e costituiscono la Cooperativa Union y Fuerza. Sempre loro nel gennaio 2001 , dopo aver pagato una indennità, aprono una fabbrica in una località in cui vi erano stati più di 1000 fallimenti aziendali negli anni precedenti. Sempre nel 2001, la fabbrica di laterizi Zanon di Neuquen e la fabbrica tessile Brukman di Buenos Aires vengono abbandonate dai padroni e rilevate dai lavoratori: La Brukman viene occupata il 18 dicembre 2001 . Jacob Brukman, l'ex-proprietario, fa sgomberare i lavoratori il 1 8 aprile del 2003, ma nell'ottobre dello stesso annola fabbrica viene dichiarata fallita, le operaie la espropriano e la restituiscono alla cooperativa 1 8 de Dicembre. Le operaie riprendono la produzione al canto di "Aqui estàn, estas son, las obreras sin patron". Nel frattempo le operaie presidiano lo stabilimento per 6 mesi sotto la costante minaccia di un sabotaggio da parte del padrone.Altre fabbriche occupate incominciano a dare i primi impulsi positivi, come la Zanon che incrementa la produttività e crea nuovi posti di lavoro (ora ci sono 250 operai).Oggi vi sono circa 200 aziende occupate e circa 1 0.000 operai che prendono parte a questa esperienza di lavoro collettivo.È l’avventura di un cambiamento politico, la realizzazione dell’utopia di un’azienda autogestita dai suoi operai secondo un principio di vera democrazia diretta, per reagire al crollo economico e sociale determinato dalla politica capitalista neoliberista dei governanti.In Italia sono moltissimi i casi di fabbriche che chiudono la produzione causando licenziamenti o mettendo gli operai in cassa integrazione o in mobilità, ma a questa politica speculativa sulle teste delle tute blu, gli operai rispondono a muso duro e rispondono basta con le speculazioni, basta con la delocalizzazione del lavoro, che lascia migliaia di famiglie senza un reddito.Un esempio di lotta che ha tenuto duro fino alla vittoria è stata quella degli operai della INNSE. Si sono verificati altri esempi di ribellione operaia: come gli operai della Ercole Marelli a Sesto San Giovanni che hanno occupato la fabbrica, un presidio della fabbrica alla Manuli diAscoli Piceno nelle Marche, gli operai della Bulleri Brevetti di Cascina (Pisa) che hanno bloccato la fabbrica con un presidio permanente davanti ai cancelli, gli operai della ESAB saldature sul tettodella fabbrica, come gli operai della Metalli preziosi e Lares di Paderno Dugnano, costretti per nove giorni e otto notti sul tetto, i 2.200 operai della Eutelia Agile (ex Olivetti e Bull) che non ricevevano lo stipendio da giugno come atto politico dimostrativo hanno sequestrato il consigliere di amministrazione, occupando successivamente lo stabilimento di Roma e poi quelli di Milano e Ivrea, 150 operai della Alstom di Colleferro (Roma) contro la manovra di mobilità hanno preso la decisione di sequestrare tre manager come gesto dimostrativo, sempre a Roma i 38 operai della Nortel Italia vengono cacciati dalla fabbrica, 10 operai della Ideal Standard di Belluno salgono sultetto per lottare in difesa del taglio dei 250 posti di lavoro, in concomitanza con l’occupazione della fabbrica bresciana, 5 operai della Fincantieri (Castellamare di Stabia) sul tetto della fabbrica per protestare contro la cassa integrazione, gli operai della Adelchi occupano simbolicamente il comune contro la politica del padrone che non paga gli stipendi in arretrato, contro la manovra della cassa integrazione in scadenza, con la costante incertezza sul riavvio dell’attività produttiva. Gli operai della Texo di Alessandria occupano lo stabilimento contro lo smantellamento dalla fabbrica, presidio permanente davanti allo stabilimento dall’Alfa romeo di Arese contro la manovra di chiusura dello stabile.Formazioni squadriste entrano nelle fabbriche condotte dal padrone: anche questo può accadere in Italia, è successo nello stabilimento dell’Agile, ex Eutelia. Il padrone della fabbrica Samuele Landi si è presentato con una quindicina di scagnozzi per intimidire i lavoratori e far sgombrare compagni che hanno occupato lo stabile contro il licenziamento di 1 .200 addetti.Sono sempre di più le fabbriche italiane che iniziano o che continuano la lotta contro la chiusura del posto di lavoro, il grido degli operai di tutta Italia è lo stesso: giù le mani dalle officine.Contro politiche speculative, contro la delocalizzazione del lavoro, contro una politica capitalista che opprime e sfrutta le classi lavoratrici, contro lo sfruttamento padronale esiste una soluzione: cacciamo via i padroni e riprendiamoci le officine. L’autogestione è l’unica strada possibile per uscire da questa crisi che non sono stati gli operai a provocare ma solo un modello capitalista in declino. Perchè la crisi del vostro sistemasfruttatore dovremmo pagarla noi? È arrivato il momento di dire basta, di alzare la testa e di lottare per un modello di autogestione. Le fabbriche agli operai e non nelle mani di un aguzzino che ti sfrutta, si arricchisce sulle tue spalle e che quando non ha più bisogno di te ti caccia a calci nel culo.
SOLIDARIETÀ A TUTTI GLI OPERAI CHE OGNI GIORNO DICONO NO E LOTTANO PER IL LORO POSTO DI LAVORO.IN MEMORIA DI TUTTI GLI OPERAI CADUTI SUL POSTO DI LAVORO
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