142 operai a casa, anni di esperienza e competenza acquisiti sul campo sacrificati sull’altare del profitto. Quando la crisi diventa una scusa e la distruzione di un’impresa funzionante viene definita ristrutturazione c’è qualcosa che non funziona nel linguaggio. Non ne siamo stupiti, chiariamoci. E’ il capitalismo, bellezza. Quando però ci troviamo di fronte famiglie con quattro figli, operai a cui mancano tre anni alla pensione e giovani sbattuti in mezzo ad una strada la rabbia è molta, ma è la razionalità che deve prendere il sopravvento, è la nostra capacità di opporci ai piani di questi sciacalli. Sciacalli sì, così li chiamano gli operai licenziati e non potremmo certo trovare un termine migliore.
Proviamo quindi a fare un po’ di ordine e a capire come si è arrivati alla chiusura della fabbrica e al licenziamento collettivo degli operai. La Elnagh nasce sessanta anni fa, fondata dall’ingegner Ghezzi. Col tempo la produzione aumenta e la fabbrica si impone come uno dei leader all’interno del settore per il mercato italiano ed europeo. La macchina aziendale funziona fino alla costituzione della Sea (società europea di autocaravan), nata dalla fusione di Elnagh con i marchi Mobilvetta e McLouis. La nuova società inizia un piano di ristrutturazione e “ammodernamento”. La richiesta annua in quel periodo si aggira intorno ai 3500 veicoli l’anno e tre impianti produttivi fanno fronte a questa domanda. Sempre in questo periodo la Sea decide la fusione con i marchi Mobilvetta e McLouis, ma è da qui che parte il declino inarrestabile. Non tutto però è inspiegabile, il piano inclinato sul quale l’azienda è velocemente scivolata è stato ben oliato dalle scelte di manager e amministratori delegati pagati fior di quattrini. Dopo l’acquisizione da parte di Sea e gli investimenti fatti, gli obiettivi che i padroni proclamano ai quattro venti sono di 10000 veicoli l’anno, per un aumento di 6500 rispetto a quelli prodotti in quel periodo. Per capire la loro credibilità e le loro capacità basti pensare che negli ultimi tre anni sono stati venduti 13500 veicoli, all’incirca 16500 camper in meno di quelli previsti. Sea nel 2004 passa sotto il controllo di Bridgepoint, un fondo di private equity, ossia un' attività di investimento che acquisisce imprese di medie dimensioni impiegando capitali raccolti tra investitori istituzionali e ricorrendo a elevati livelli di indebitamento. L'obiettivo dei private equity è quello di ristrutturare le imprese acquisite, allo scopo di poterle successivamente rivendere e di ottenere così rendimenti superiori rispetto ad altri tipi di investimento. Dopo questi cambiamenti nella proprietà le scelte dell’azienda risultano quantomeno discutibili e tutte orientate alla chiusura dello stabilimento lombardo. Di tre anni fa è la decisione di vendere il capannone storico di proprietà, situato a Zibido San Giacomo, per trasferirsi in un nuovo spazio a Trivolzio pagando un affitto ed eliminando due terzisti che lavoravano insieme a questo polo. A ciò segue lo spostamento di alcuni macchinari utilizzati per il montaggio delle fiancate, costringendo gli operai al sollevamento di queste e alle conseguenze fisiche di ciò. Tutto ciò con un piano d’ investimento folle senza un minimo legame con la flessione del mercato che stava avvenendo negli anni passati e continua tuttora.
Uno dei responsabili dei licenziamenti è Maurizio de Costanzo ex amministratore delegato della Pisticci Cfp, di cui nel 2007 fece chiudere lo stabilimento di Pisticci dove lavoravano 68 persone. Per dare qualche numero che conta basta pensare che dopo un anno solo il 13% di quei dipendenti aveva trovato un’altra occupazione. L’azienda avrebbe inoltre utilizzato le loro conoscenze, frutto del lavoro di anni, per testare prototipi che saranno prodotti a Poggibonsi. Il cerchio a questo punto si chiude e possiamo tracciarlo così: creare le condizioni per far fallire un’azienda, piazzare un amministratore delegato “esperto in fallimenti”, rubare le competenze ed il marchio storico e alla fine lasciare 142 persone senza un lavoro. Un bel regalo di Natale per le famiglie e gli operai che da anni si sacrificano dentro a quello stabilimento.
Ciò che resta alla fine di questa storia è una fabbrica vuota, 142 operai capaci di farla funzionare, certamente meglio dei dirigenti, a presidiare i cancelli e una marea di famiglie senza più un reddito. La morale che questa vicenda ci consegna parla di precarietà come denominatore comune per tutti i lavoratori, da chi ha un contratto a tempo indeterminato a chi subisce i ricatti sottostanti alle nuove tipologie contrattuali. Da sempre diciamo che solo la lotta paga, noi resisteremo al loro fianco fino all’ultimo giorno, un minuto più del padrone.
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1 commento:
Sono un dipendente sea non di Trivolzio, ma sono pienamente dalla vostra parte... dobbiamo far sentire la nostra voce ai manager strapagati e straviziati...
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