Come spesso mi accade, ho di recente sfogliato un quotidiano che si reputa indipendente e propositivo di un punto di vista scientificamente critico sulla politica estera contemporanea. Non è un quotidiano propriamente di sinistra, anzi non lo è per nulla. Cerco le pagine di politica internazionale, il tema è il conflitto israelo-palestinese. Tre articoli ben scritti, seppur contestabili quanto a contenuti ed affermazioni: l’ultimo, a fondo pagina, inveisce contro Amnesty International, associazione impegnata nella difesa dei diritti umani (e qui l’autore ironizza) rea di definire senza indugio e, a detta dell’autore, senza ragione lo stato ebraico non ricordo esattamente se canaglia, farabutto o stupratore dei diritti umani. Il senso, credo, non cambia.
Quel su cui il nostro giornalista si sofferma è il temibile ritorno di un’ondata di odio razziale antisemita, che il propagarsi nel mondo di islamici ed islam propugna trovando orecchio compiaciuto in quella fetta di italiani instancabilmente ancorati a sinistra (credo non distingua il pensiero di sinistra dal PD). Quel che non viene raccontato è il perché di un’affermazione tanto aggressiva da parte di un’associazione riconosciuta a livello internazionale per l’ottimo lavoro in materia di diritti umani e la ponderatezza di termini ed affermazioni.
Non ho acquistato di persona il quotidiano in questione, lungi dal voler arricchire chi da tempo si permette grassi e grossi pasti. Pongo dunque con garbo la questione alla lettrice di cultura che acquista abitualmente il quotidiano, dando per scontato che fosse a conoscenza di risoluzioni Onu non rispettate da Tel Aviv, di uranio impoverito, di bombe al fosforo, di colonie in espansione e, fermiamoci pure qui, di un muro in costruzione. “Risoluzioni Onu?”, risponde. No, il suo quotidiano non ne parla, non ne hai mai fatto riferimento. Beh, le rispondo, sei andata più volte in Israele, avrai visto con i tuoi occhi i check-point, la discriminazione, l’abuso di potere …
La sua risposta mi ha fatto riflettere. Interagiamo con connazionali che accettano le informazioni proposte dal regime senza approfondirle o richiedere spiegazioni, dettaglio che diventa grave nel momento in cui siamo circa a metà classifica nella graduatoria mondiale in materia di libertà d’informazione. Le informazioni arrivano distorte e sfaccettate a piacimento: i lettori restano annebbiati dagli zuccherini di turno, che risultano vincenti anche in momento di crisi. Alla stregua della religione secondo Marx. Se ci riesce il governo italiano, figuriamoci come strutturano tutto a puntino gli israeliani al momento di accogliere pellegrini cristiani che, a dispetto del conflitto in corso, si recano a Tel Aviv e Gerusalemme. A loro non trapela alcun sospetto.
Ritengo doveroso diffondere informazioni e notizie altrimenti di difficile reperibilità. Ho contato 75 risoluzioni Onu che riprendevano le politiche di Tel Aviv, dal 1948 ad oggi: ho allegato un pensiero di Desmond Tutu (da poco ritirato a vita privata, Nobel per la pace nel 1984) in cui afferma di “avere rivisto nelle pratiche dei governi israeliani rispetto ai palestinesi e nell'«abominevole» blocco di Gaza, molto di quanto era capitato a noi neri in Sudafrica”, sottolineando che la fonte è un quotidiano fazioso, il Manifesto di venerdì 8 ottobre. Ed ho spedito il tutto alla lettrice inconsapevole.
Quest’estate un mio caro amico ha trascorso qualche mese nei territori occupati, come inviato di Limes Online, rivista di geopolitica. Come ci suggerì Amira Hass nel corso di un recente workshop, l’inviato speciale ha indagato sulla suddivisione in “aree” di tutto il territorio Palestinese, Area A,B e C. “Area C è il termine tecnico che, secondo la divisione amministrativa decisa dall’ “Interim Agreement” degli Accordi di Oslo (1993-1995), designa il territorio della Cisgiordania sotto esclusivo controllo israeliano, militare e civile. Un controllo che sarebbe dovuto durare solo cinque anni e che invece continua tutt’oggi, a discapito del diritto internazionale e degli oltre 150.000 palestinesi che ci vivono. Un territorio che rappresenta oltre il 60% dell’intera Cisgiordania. Non si può costruire niente in Area C senza prima ottenere il permesso della Dco (District Coordination Offices), l’Amministrazione Civile israeliana. Permesso che, le rare volte che viene accordato, richiede anni d’attesa. I 120 kilometri di Valle del Giordano rappresentano la più grande estensione continua di Area C. Un’eccezione nella cartina a macchia di leopardo della Cisgiordania. Annessa de facto da Israele, la Valle del Giordano viene considerata il confine naturale tra stato ebraico e Giordania. Il 95% del territorio è sotto il diretto controllo israeliano, stando alle cifre dell’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari). Il 44% è riserva naturale o “Military Firing Zone”, zona adibita esclusivamente all'addestramento militare. Più del 50% del territorio, invece, è occupato dalle colonie. Alle comunità palestinesi che abitano i 17 villaggi della zona, in maggioranza beduini seminomadi, non rimane che il 6%. Prima del 1967 si stima che la Valle del Giordano fosse abitata da più di 300.000 palestinesi. Oggi ne sono rimasti meno di 60.000, di cui la stragrande maggioranza vive nelle città di Gerico e Tubas. Quasi tutto il territorio della valle è in Area C, ma alcuni villaggi, come Jiftlik, si trovano in parte anche in Area B. La differenza la si percepisce guardando i tetti delle case. Le costruzioni che sorgono in Area C, illegali per il diritto israeliano, hanno il tetto in lamiera. Meno costoso e più facile da ricostruire in caso di demolizione”. Altri villaggi, svariati nel nord-ovest, “rappresentano un esempio lampante dello strangolamento sociale ed economico che subiscono quotidianamente alcune comunità locali: il nucleo cittadino vero e proprio (Area A), una sottile cintura di spiaggette in bassa marea (Area B), un ampio anello di mare tutt’attorno (Area C). é il muro a limitarne confini e crescita: dal 2003 con la costruzione del muro, che in questa zona per raggiungere e collegare ad Israele le colonie si addentra nel territorio palestinese anche di 15 chilometri dalla Linea Verde (confine deciso dall'armistizio del 1949), molte comunità periurbane si sono trovate scollegate dalla città e dal mondo esterno”.
A noi non resta che dar voce a questo triste pezzo di storia, e ricordare che a cavallo di Natale partirà un’altra spedizione navale per rompere lo stato di embargo imposto a Gaza; e che in tanti (soprattutto all’estero in nome della propaganda Bds) si stanno impegnando a boicottare merce israeliana prodotta nelle terre confiscate illegalmente ai palestinesi.
Quel su cui il nostro giornalista si sofferma è il temibile ritorno di un’ondata di odio razziale antisemita, che il propagarsi nel mondo di islamici ed islam propugna trovando orecchio compiaciuto in quella fetta di italiani instancabilmente ancorati a sinistra (credo non distingua il pensiero di sinistra dal PD). Quel che non viene raccontato è il perché di un’affermazione tanto aggressiva da parte di un’associazione riconosciuta a livello internazionale per l’ottimo lavoro in materia di diritti umani e la ponderatezza di termini ed affermazioni.
Non ho acquistato di persona il quotidiano in questione, lungi dal voler arricchire chi da tempo si permette grassi e grossi pasti. Pongo dunque con garbo la questione alla lettrice di cultura che acquista abitualmente il quotidiano, dando per scontato che fosse a conoscenza di risoluzioni Onu non rispettate da Tel Aviv, di uranio impoverito, di bombe al fosforo, di colonie in espansione e, fermiamoci pure qui, di un muro in costruzione. “Risoluzioni Onu?”, risponde. No, il suo quotidiano non ne parla, non ne hai mai fatto riferimento. Beh, le rispondo, sei andata più volte in Israele, avrai visto con i tuoi occhi i check-point, la discriminazione, l’abuso di potere …
La sua risposta mi ha fatto riflettere. Interagiamo con connazionali che accettano le informazioni proposte dal regime senza approfondirle o richiedere spiegazioni, dettaglio che diventa grave nel momento in cui siamo circa a metà classifica nella graduatoria mondiale in materia di libertà d’informazione. Le informazioni arrivano distorte e sfaccettate a piacimento: i lettori restano annebbiati dagli zuccherini di turno, che risultano vincenti anche in momento di crisi. Alla stregua della religione secondo Marx. Se ci riesce il governo italiano, figuriamoci come strutturano tutto a puntino gli israeliani al momento di accogliere pellegrini cristiani che, a dispetto del conflitto in corso, si recano a Tel Aviv e Gerusalemme. A loro non trapela alcun sospetto.
Ritengo doveroso diffondere informazioni e notizie altrimenti di difficile reperibilità. Ho contato 75 risoluzioni Onu che riprendevano le politiche di Tel Aviv, dal 1948 ad oggi: ho allegato un pensiero di Desmond Tutu (da poco ritirato a vita privata, Nobel per la pace nel 1984) in cui afferma di “avere rivisto nelle pratiche dei governi israeliani rispetto ai palestinesi e nell'«abominevole» blocco di Gaza, molto di quanto era capitato a noi neri in Sudafrica”, sottolineando che la fonte è un quotidiano fazioso, il Manifesto di venerdì 8 ottobre. Ed ho spedito il tutto alla lettrice inconsapevole.
Quest’estate un mio caro amico ha trascorso qualche mese nei territori occupati, come inviato di Limes Online, rivista di geopolitica. Come ci suggerì Amira Hass nel corso di un recente workshop, l’inviato speciale ha indagato sulla suddivisione in “aree” di tutto il territorio Palestinese, Area A,B e C. “Area C è il termine tecnico che, secondo la divisione amministrativa decisa dall’ “Interim Agreement” degli Accordi di Oslo (1993-1995), designa il territorio della Cisgiordania sotto esclusivo controllo israeliano, militare e civile. Un controllo che sarebbe dovuto durare solo cinque anni e che invece continua tutt’oggi, a discapito del diritto internazionale e degli oltre 150.000 palestinesi che ci vivono. Un territorio che rappresenta oltre il 60% dell’intera Cisgiordania. Non si può costruire niente in Area C senza prima ottenere il permesso della Dco (District Coordination Offices), l’Amministrazione Civile israeliana. Permesso che, le rare volte che viene accordato, richiede anni d’attesa. I 120 kilometri di Valle del Giordano rappresentano la più grande estensione continua di Area C. Un’eccezione nella cartina a macchia di leopardo della Cisgiordania. Annessa de facto da Israele, la Valle del Giordano viene considerata il confine naturale tra stato ebraico e Giordania. Il 95% del territorio è sotto il diretto controllo israeliano, stando alle cifre dell’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari). Il 44% è riserva naturale o “Military Firing Zone”, zona adibita esclusivamente all'addestramento militare. Più del 50% del territorio, invece, è occupato dalle colonie. Alle comunità palestinesi che abitano i 17 villaggi della zona, in maggioranza beduini seminomadi, non rimane che il 6%. Prima del 1967 si stima che la Valle del Giordano fosse abitata da più di 300.000 palestinesi. Oggi ne sono rimasti meno di 60.000, di cui la stragrande maggioranza vive nelle città di Gerico e Tubas. Quasi tutto il territorio della valle è in Area C, ma alcuni villaggi, come Jiftlik, si trovano in parte anche in Area B. La differenza la si percepisce guardando i tetti delle case. Le costruzioni che sorgono in Area C, illegali per il diritto israeliano, hanno il tetto in lamiera. Meno costoso e più facile da ricostruire in caso di demolizione”. Altri villaggi, svariati nel nord-ovest, “rappresentano un esempio lampante dello strangolamento sociale ed economico che subiscono quotidianamente alcune comunità locali: il nucleo cittadino vero e proprio (Area A), una sottile cintura di spiaggette in bassa marea (Area B), un ampio anello di mare tutt’attorno (Area C). é il muro a limitarne confini e crescita: dal 2003 con la costruzione del muro, che in questa zona per raggiungere e collegare ad Israele le colonie si addentra nel territorio palestinese anche di 15 chilometri dalla Linea Verde (confine deciso dall'armistizio del 1949), molte comunità periurbane si sono trovate scollegate dalla città e dal mondo esterno”.
A noi non resta che dar voce a questo triste pezzo di storia, e ricordare che a cavallo di Natale partirà un’altra spedizione navale per rompere lo stato di embargo imposto a Gaza; e che in tanti (soprattutto all’estero in nome della propaganda Bds) si stanno impegnando a boicottare merce israeliana prodotta nelle terre confiscate illegalmente ai palestinesi.
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