Ogni anno, crisi o non crisi, in Italia oltre mille persone perdono la vita lavorando. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, si permette di definire la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro “un lusso che non possiamo più permetterci” (Meeting di Comunione e liberazione, Rimini, 23/8/2010, applausi dalla platea…). Tra tutti gli infortuni sul lavoro si arriva al dato di circa un milione all’anno. Queste cose non fanno notizia, di solito non basta neanche il morto, ci vuole la strage. La Ilva di Taranto ha il record di infortuni mortali in Italia ma se ne parla pochissimo, perché lì di solito gli operai muoiono uno alla volta. Una alla volta muoiono anche le tante vittime di malattie professionali. 25 mila persone ogni anno si ammalano lavorando, 1000 di tumore. Alcune di queste malattie sono causate dalla respirazione di fibre di amianto. Una delle più comuni è l’asbestosi, che consiste in una insufficienza respiratoria cronica. Ma le vittime dell’amianto (in Italia oltre 2 mila morti l’anno) si devono soprattutto al mesotelioma pleurico, il tumore della pleura, la membrana che riveste esternamente i polmoni e internamente la cassa toracica. Sono 9 mila i casi registrati tra il ‘93 e il 2004, il 70% di questi è dovuto a un’esposizione avvenuta sul posto di lavoro. E oltre al mesotelioma pleurico, ci sono i tumori al polmone, al peritoneo, alla laringe e alle ovaie.
Già nel 1964 a New York il ricercatore Irving Seljakov dimostra che di amianto si può morire. In Italia uno studio comparso nell’ottobre 1972 sulla rivista Medicina del lavoro mostra una buona conoscenza della pericolosità dell’amianto e delle possibili precauzioni da adottare sui luoghi di lavoro. Ma già prima, addirittura negli anni ’30, nella Germania nazista, i tumori legati alle fibre di amianto vengono classificati tra le malattie professionali. Eppure in Italia (paese al secondo posto in Europa per la quantità di amianto lavorato) solo nel 1992 viene approvata una legge che ne mette al bando la lavorazione e l’utilizzo e impone la bonifica su tutto il territorio. Infatti il problema non riguarda solo le fabbriche in cui si lavora questo materiale, ma anche i prodotti che da quelle fabbriche escono. L’edilizia è sempre stata un campo di utilizzo di amianto, in particolare quella popolare, per i bassi costi del materiale: un esempio è quello delle case popolari di via Feltrinelli a Milano, dove vivono 152 famiglie e dove sono già 10 le persone che si sono ammalate di mesotelioma.
Già nel 1964 a New York il ricercatore Irving Seljakov dimostra che di amianto si può morire. In Italia uno studio comparso nell’ottobre 1972 sulla rivista Medicina del lavoro mostra una buona conoscenza della pericolosità dell’amianto e delle possibili precauzioni da adottare sui luoghi di lavoro. Ma già prima, addirittura negli anni ’30, nella Germania nazista, i tumori legati alle fibre di amianto vengono classificati tra le malattie professionali. Eppure in Italia (paese al secondo posto in Europa per la quantità di amianto lavorato) solo nel 1992 viene approvata una legge che ne mette al bando la lavorazione e l’utilizzo e impone la bonifica su tutto il territorio. Infatti il problema non riguarda solo le fabbriche in cui si lavora questo materiale, ma anche i prodotti che da quelle fabbriche escono. L’edilizia è sempre stata un campo di utilizzo di amianto, in particolare quella popolare, per i bassi costi del materiale: un esempio è quello delle case popolari di via Feltrinelli a Milano, dove vivono 152 famiglie e dove sono già 10 le persone che si sono ammalate di mesotelioma.
Casale Monferrato. A Casale Monferrato l’amianto si lavora per 80 anni, dal 1906 al 1986, anno di chiusura dello stabilimento della Eternit. Da questa cittadina in provincia di Alessandria proviene il 40% della produzione italiana di cemento amianto (oltre alla Eternit, anche la Fibronit ha una fabbrica a Casale). A contatto diretto con le fibre di amianto lavorano migliaia di persone: solo la Eternit ne assume 5 mila a partire dagli anni ’50, e nei primi ’80 ancora 600 operai lavorano in questo stabilimento. Non si ammalano solo gli operai: l’amianto entra nelle case sulla loro pelle e sulle tute che le mogli lavano. A diffondere la polvere in città ci pensa anche la fabbrica stessa: l’amianto viene in parte aspirato, perché si possa vedere qualcosa nei reparti, ed esce dallo stabilimento, dove segue il vento. Inoltre la Eternit regala un po’ di materiale di scarto ai suoi dipendenti, per farci qualche manufatto, qualche pavimentazione: così la polvere si accumula a mucchi nei cortili, dove i bambini ci giocano come se fosse sabbia. Nel 1947 l’asbestosi è riconosciuta come malattia professionale e con gli anni ’50 e ’60 iniziano ad arrivare richieste di maggiore protezione. Ancora però i lavoratori non hanno idea del massacro che sta avvenendo e a cercare di mantenere il silenzio c’è l’atteggiamento della direzione: chi parla, quando non viene licenziato, viene trasferito al “confino” nei reparti più nocivi.
Nell’86 lo stabilimento Eternit chiude, ma a Casale si continua a morire: con gli anni ’90 c’è un aumento fino a 45 nuovi casi di mesotelioma all’anno. Anche alcuni dirigenti, gli stessi che fanno passare sotto silenzio la situazione degli operai (e che nei bollettini aziendali fanno scrivere che i lavoratori stiano attenti alle sigarette, perché fanno venire il cancro…), finiscono con l’ammalarsi e morire. Ma sopra di loro c’è chi fa finta di niente anche di fronte alla loro morte.
Dopo una prima causa conclusa nell’87 con il riconoscimento economico dei danni subiti dai lavoratori, anche l’associazione dei famigliari delle vittime si rivolge alla procura di Casale: inizia un processo con 1700 parti lese e nel giugno ‘93 6 dirigenti vengono condannati per omicidio colposo, ma a pene da 1 a 3 anni, per cui non si fa neanche un giorno di carcere.
Nel 2004 anche la procura di Torino apre un’indagine sulla Eternit, arrivando ad accertare nei 5 stabilimenti italiani 2960 morti per esposizione all’amianto. Le accuse arrivano per la prima volta in Belgio e in Svizzera, dove si prendono le decisioni sulle politiche della sicurezza seguite in tutti gli stabilimenti del gruppo. Vengono rinviati a giudizio i proprietari della Eternit Stephan Schmidheiny (tra l’altro rappresentante all’Onu per lo sviluppo sostenibile…) e Jean Loui de Cartier de Marchienne. Le accuse che si trovano di fronte sono semplici: sapevano quali rischi comportava lavorare l’amianto e non hanno preso provvedimenti. Anzi, da quando è riconosciuto che l’amianto provoca il cancro, negli stabilimenti Eternit se ne usa il doppio di prima. L’Associazione italiana esposti amianto ha chiesto l’integrazione del capo d’accusa con la contestazione di omicidio volontario con dolo eventuale e strage. In un comunicato ha dichiarato: “i morti sul lavoro, le vittime dell’amianto e dei cancerogeni usati nei processi di produzione non sono mai frutto di fatalità ma di scelte imprenditoriali di padroni che subordinano la vita umana al profitto”. Il processo è attualmente in corso.
Non solo Eternit. A differenza della Eternit, ai cantieri navali di Monfalcone (Gorizia), l’amianto non si lavora, ma lo si usa soltanto, per i rivestimenti, gli isolamenti termici, le porte ignifughe. Tra chi lavora a Monfalcone, alcune stime parlano di oltre 2000 vittime solo a partire dal 1980. Duilio Castelli, operaio Fincantieri che convive con l’asbestosi dal 1971, fonda nel 1994 l’Associazione esposti amianto di Monfalcone, alla quale si associano molte vedove di operai dei cantieri. Quello che non possono sopportare è il silenzio nel quale sono finiti i loro mariti una volta morti, il silenzio che pesa su Monfalcone sulla questione amianto e sulle responsabilità dei dirigenti. Iniziano a fare presidi ogni settimana sotto il tribunale di Gorizia, riprendendo l’esempio delle famose Madri di Plaza de Mayo, in lotta per avere giustizia sui casi dei loro figli “desaparecidos”, oppositori fatti sparire nel nulla durante la dittatura militare argentina. Le prime richieste di rinvio a giudizio per dirigenti della Fincantieri di Monfalcone arrivano nel 2004, con le accuse di non aver avvertito i lavoratori dei rischi che correvano, non aver fornito le protezioni adeguate, insomma avere saputo e taciuto. La prescrizione permette a molti imputati di uscire di scena prima della fine dei processi: l’unica sentenza arriva per la morte di Annamaria Greco, addetta alle pulizie, con la condanna a un anno per omicidio colposo al dirigente Manlio Lippi. Ovviamente la pena è sospesa con la condizionale.
L’Italia è piena di casi di vere e proprie stragi dovute all’amianto, o meglio ai profitti che qualcuno con l’amianto deve farci: si va dai 77 morti alla Breda di Sesto, a quelli nei diversi stabilimenti Ansaldo, ai 34 morti accertati alla Goodyear di Cisterna (Latina). Oltre agli stabilimenti Eternit, Fibronit e Sacelit, oltre alla decina di fabbriche di cemento amianto in Emilia, ai petrolchimici e ai cantieri navali, c’è il caso della miniera a cielo aperto di Balangero, provincia di Torino, la più grande miniera d’amianto in Europa, dove l’estrazione continua fino al 1990. Nella grande maggioranza dei casi nessuno ha pagato e, anche se si è arrivati a un processo, prescrizione, condoni e indulti hanno evitato il carcere a moltissimi dirigenti e padroni. Una parziale eccezione a Palermo, lo scorso aprile, quando vengono condannati 3 dirigenti di Fincantieri, con pene da 3 a 7 anni (meno 3 anni di condono da togliere): questo per i responsabili accertati della morte di 29 lavoratori. Certo, vicino alla parola omicidio c’è l’aggettivo “colposo” che attutisce, e di molto, le responsabilità penali, ma la sostanza rimane quella.
Broni e la Fibronit. La Cementifera Italiana Fibronit inizia la sua produzione a Broni nel 1919. Dal ‘32 al ‘93 in questa cittadina si lavora l’amianto per costruire tubi, lastre di copertura, canne per camini e altri manufatti. Entrata in vigore la legge del ‘92, la Fibronit costituisce un ramo d’azienda per la produzione di tubi in fibro-cemento con sistema ecored (senza amianto), rimanendo negli stessi capannoni, senza nessuna opera di pulizia. Dopo la chiusura definitiva la proprietà non fa nulla per la bonifica. Successivamente con soldi pubblici vengono eseguiti solo gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza, mentre a breve dovrebbe partire la bonifica vera e propria.
La contaminazione porta circa 500 persone alla morte e altre centinaia ad una gravissima patologia: secondo l’Istituto superiore della sanità, a Broni è in atto la seconda epidemia più grave dopo quella di Casale Monferrato. La strage è in corso: solo tra il 2000 e il 2005 vengono diagnosticati 184 mesoteliomi, di cui 130 per esposizione diretta, mentre 54 sono casi di famigliari di operai o semplicemente di persone che abitano o lavorano nei dintorni della fabbrica. E, dato il lungo periodo di latenza tra esposizione all’amianto e manifestazione del tumore, il picco della mortalità deve ancora essere raggiunto, è previsto tra il 2015 e il 2020.
Un processo sta per iniziare anche per il caso Fibronit, dopo l’esposto presentato da Legambiente e sottoscritto da circa 80 persone. Prima, in un clima di silenzio e rassegnazione, soltanto due cittadini avevano presentato denuncia. Gli imputati saranno dieci dirigenti dell’azienda: Dino Stringa, Teodoro Manara, Michele Cardinale, Lorenzo Mo, Claudio Dal Pozzo, Giovanni Boccini, Guglielma Capello, Maurizio Modena, Domenico Salvino, Alvaro Galvani. Le accuse sono omicidio colposo, disastro colposo e violazione delle norme per la prevenzione delle malattie sul lavoro, con l’aggravante di avere “omesso volontariamente”. Questo particolare può significare un triplicamento delle eventuali pene e del tempo di prescrizione. Al di là delle responsabilità che verranno accertate, molti si presenteranno sul banco degli imputati con la certezza di avere ormai evitato il carcere, se non altro per l’età. È il caso, tra gli altri, di Stringa, 85 anni, amministratore della Fibronit dal 1969 al 1987 e per 4 anni direttore dello stabilimento.
Voghera e le Ogr. Quello della Fibronit non è un caso isolato nemmeno in Oltrepò. Ultimamente è venuto fuori sulla stampa locale (ma chi ci lavora di amianto ne parla da sempre) il caso delle ex Officine grandi riparazioni delle Ferrovie a Voghera. Alle Ogr gli operai utilizzano l’amianto per anni, senza nessuna precauzione specifica, per l’isolamento termico e acustico e l’ignifugazione: in particolare l’ignifugazione viene fatta a spruzzo, il che dà luogo ad altissime polverosità ambientali. Secondo uno studio sindacale, anche se la bonifica di vagoni e locomotive è iniziata nei primi anni ‘80, ancora oggi a Voghera, all’Officina manutenzione ciclica di Trenitalia, dove lavorano in 300, si eseguono inconsapevoli interventi a contatto con l’amianto, a causa di una mappatura errata della presenza di questo materiale sui treni.
Sono un centinaio i lavoratori che hanno avviato le pratiche per il riconoscimento almeno del rischio di malattia professionale. Questo può essere utile per fini pensionistici, ma a patto che l’esposizione all’amianto sia di almeno 10 anni, quando per ammalarsi può bastare molto meno, in casi limite addirittura respirare una sola fibra d’amianto. Non ci sono al momento dati precisi e si parla di una ventina di casi di mesotelioma pleurico, ma purtroppo i precedenti non lasciano tranquilli i lavoratori vogheresi. Se non bastasse il caso della vicina Broni, è inquietante il dato che arriva dalle officine di Bologna, dove si faceva lo stesso lavoro di Voghera: tra quei manutentori sono 150 le morti accertate dovute all’esposizione all’amianto. Al contrario di Bologna, fino ad ora dai dipendenti delle ex Ogr non ci sono stati esposti contro l’azienda, quindi non è mai partita un’inchiesta della magistratura.
Di certo non saranno una o più condanne in tribunale a rendere giustizia per quello che è successo, ma l’attenzione sul processo Fibronit, sulle ex Ogr e sugli interventi di bonifica va mantenuta alta: dobbiamo sostenere tutti i lavoratori, i cittadini e le associazioni che stanno provando a rompere il silenzio che per anni ha di fatto permesso l’impunità per i responsabili delle stragi di amianto.
Nessun commento:
Posta un commento