Alla fine, dopo anni di finte ambiguità, Sergio Marchionne ha aperto il fuoco, e lo ha fatto ad alzo zero. Il suo progetto, oltre a riguardare la più importante impresa del paese, è destinato a ripercuotersi su tutto il mondo del lavoro dipendente. Nei suoi interventi la parola più frequente è “flessibilità”, termine molto inflazionato in questi ultimi anni; ma se nella bocca di qualche imprenditore può suonare bene e dare l'idea di innovazione e di attualità, per i lavoratori dipendenti significa una cosa sola, che forse è meglio non riportare per educazione. E invece no, diciamola: per i lavoratori dipendenti significa prenderselo nuovamente nel culo.
Basta diritto di sciopero, basta limite di straordinari, basta troppe pause durante il turno di lavoro, basta contrattazione nazionale. Con questo progetto, Marchionne spiana definitivamente la strada alla distruzione dei diritti e di tutta una serie di garanzie per i lavoratori.
L'amministratore delegato della Fiat parla in continuazione della necessità di superare schemi e ragionamenti “vecchi”, anacronistici, non più applicabili in questo nuovo XXI secolo. Tutte le parti sociali dovrebbero fare un passo indietro, e venire incontro alle esigenze della controparte. Peccato che in questo fantomatico “patto sociale” sono solo i lavoratori a dover fare rinunce nei confronti degli imprenditori, dei padroni. Da più di trent'anni i sindacati confederali hanno accettato questa linea e sono passati dal sindacalismo di scontro, di lotta, a quello di concertazione. Ogni volta che si presenta una vertenza, una fabbrica che vuole chiudere per esempio, il sindacato tratta con l'azienda, cercando una via d'uscita poco dolorosa per gli operai, il meno peggio, insomma. Per decenni è sembrato che questa pratica fosse vincente, che forse quella lotta riassunta fino a poco prima col nome di “classe” fosse superata e che gli imprenditori, divenuti improvvisamente illuminati, avessero iniziato a tener conto delle esigenze e dei diritti dei loro dipendenti.
È dovuta scoppiare la crisi economica più grande da quella famosa del 1929 per aprire definitivamente gli occhi dei lavoratori; per capire che i metodi utilizzati fin'ora non solo non hanno dato risultati, ma sul lungo periodo hanno addirittura portato ad un arretramento sostanziale delle condizioni lavorative. Si sono spalancate le porte al precariato, alla libertà di un'impresa di poter chiudere quando meglio crede senza tener conto che con quella decisione delle persone si troveranno in mezzo alla strada. Ci siamo completamente dimenticati, o non lo vogliamo più vedere, che un'impresa, qualunque essa sia, non è un'entità libera, scollegata dal tessuto sociale in cui si trova e produce; ma ha di fatto una funzione sociale, nel momento in cui col lavoro che essa mette a disposizione ci sono delle famiglie intere di lavoratori che vivono e si costruiscono un futuro grazie ad essa.
Si è dovuto arrivare ad una crisi economica, a centinaia di migliaia di cassintegrati, a milioni di persone disoccupate, alla scomparsa di un futuro e di una vita dignitosa, per rendersi conto di tutti gli errori commessi in questi anni. Meglio tardi che mai, si direbbe in questi casi, peccato che questo “tardi” scotta, e anche molto.
Caro Marchionne, la tua flessibilità e la tua voglia di progresso stanno riportando le condizioni di lavoro di questo paese indietro di oltre un secolo; altroché sviluppo. Dall'altra parte ci sono stati lavoratori ingenui e sindacati ciechi, che però adesso si trovano nella necessità di doversene uscire, e alla svelta. Così, se da una parte sindacati come la Cisl e la Uil hanno scelto di stare con i padroni, divenendo di fatto i loro alfieri, o meglio i loro servi, dall'altra la Cgil, ed in particolar modo la Fiom, hanno scelto la via diametralmente opposta. Il sindacato dei metalmeccanici in particolare si è fatto come pioniere di questo movimento che, in tutta Italia, sta cercando di far attecchire le radici, e allo stesso tempo di trovare un'unità, quantomeno di intenti, che si è dimostrata essere necessaria.
Il 16 ottobre scorso abbiamo assistito alla prima “uscita pubblica” di quella parte di Italia che non vuole piegarsi. Centinaia di migliaia di operai, lavoratori, studenti e pensionati hanno invaso piazza S.Giovanni a Roma. La richiesta di questa piazza è stata molto semplice: basta con lo sfruttamento di questi criminali, un mondo diverso è possibile, sciopero generale.
La piazza l'ha chiesto, la Fiom l'ha chiesto, la Cgil l'ha messo in stand by. In questa situazione il sindacato più grande d'Italia si trova in una fase di transizione, o meglio di scontro tra le teorie concertative nate negli ultimi decenni e quelle di lotta finite da tempo. Il problema è appunto che la dirigenza della Cgil non solo non vuole abbandonare i metodi attuali, ma non avrebbe nemmeno le capacità per fare altrimenti. Per fortuna che la Fiom c'è, verrebbe da dire. Ma anche in questo caso si creano diverse questioni. La prima rigurda le reali possibilità del sindacato dei metalmeccanici di riuscire a fare veramente da propulsore alle lotte, di riuscire a catalizzare tutti quei movimenti e tutte quelle vertenze verso un'unica direzione e un unico scopo. La seconda riguarda la possibilità per la base di riconoscere nella Fiom un valido interlocutore. Se infatti la Fiom sta portando avanti una linea valida e tutto sommato condivisibile, lo sconforto fra i lavoratori è altissimo. Trent'anni di totale disinteresse, ha portato migliaia di lavoratori a perdere fiducia (come dar loro torto) nei confronti della Cgil. Infine l'ultima questione vuole essere un po' la sintesi delle due precedenti. Nel caso si dovesse anche formare un movimento di massa deciso e forte, che fare? Il 16, a Roma, i manifestanti hanno chiesto lo sciopero generale. In Italia, però, non c'è mai stata una tradizione forte di sciopero, almeno negli ultimi 60 anni, e la paura che un fantomatico sciopero generale si possa tramutare in uno spauracchio, ma che non fa paura, perché troppo debole, c'è e preoccupa.
Lo sciopero generale è necessario, e va fatto, ma applicando i metodi che utilizzano i francesi. Blocco totale dei luoghi di lavoro da parte dei lavoratori; assemblee democratiche quotidiane degli scioperanti per scegliere se proseguire con la protesta oppure no; ma soprattutto, blocco ad oltranza fino all'ottenimento delle richieste.
La speranza è che la base dei lavoratori riesca a spostare quel pachiderma che è la Cgil verso queste posizioni, così come ha fatto la Fiom in piazza il 16 ottobre, strappando una quasi promessa di sciopero generale. Nel frattempo però è necessaria la mobilitazione di tutti.
Nelle fabbriche in crisi, in tutti i luoghi di lavoro in cui le condizioni lavorative sono precarie o insufficienti, nelle scuole e nelle università sotto attacco da parte del governo, è necessario reagire. Bisogna occupare e bloccare tutto.
Basta diritto di sciopero, basta limite di straordinari, basta troppe pause durante il turno di lavoro, basta contrattazione nazionale. Con questo progetto, Marchionne spiana definitivamente la strada alla distruzione dei diritti e di tutta una serie di garanzie per i lavoratori.
L'amministratore delegato della Fiat parla in continuazione della necessità di superare schemi e ragionamenti “vecchi”, anacronistici, non più applicabili in questo nuovo XXI secolo. Tutte le parti sociali dovrebbero fare un passo indietro, e venire incontro alle esigenze della controparte. Peccato che in questo fantomatico “patto sociale” sono solo i lavoratori a dover fare rinunce nei confronti degli imprenditori, dei padroni. Da più di trent'anni i sindacati confederali hanno accettato questa linea e sono passati dal sindacalismo di scontro, di lotta, a quello di concertazione. Ogni volta che si presenta una vertenza, una fabbrica che vuole chiudere per esempio, il sindacato tratta con l'azienda, cercando una via d'uscita poco dolorosa per gli operai, il meno peggio, insomma. Per decenni è sembrato che questa pratica fosse vincente, che forse quella lotta riassunta fino a poco prima col nome di “classe” fosse superata e che gli imprenditori, divenuti improvvisamente illuminati, avessero iniziato a tener conto delle esigenze e dei diritti dei loro dipendenti.
È dovuta scoppiare la crisi economica più grande da quella famosa del 1929 per aprire definitivamente gli occhi dei lavoratori; per capire che i metodi utilizzati fin'ora non solo non hanno dato risultati, ma sul lungo periodo hanno addirittura portato ad un arretramento sostanziale delle condizioni lavorative. Si sono spalancate le porte al precariato, alla libertà di un'impresa di poter chiudere quando meglio crede senza tener conto che con quella decisione delle persone si troveranno in mezzo alla strada. Ci siamo completamente dimenticati, o non lo vogliamo più vedere, che un'impresa, qualunque essa sia, non è un'entità libera, scollegata dal tessuto sociale in cui si trova e produce; ma ha di fatto una funzione sociale, nel momento in cui col lavoro che essa mette a disposizione ci sono delle famiglie intere di lavoratori che vivono e si costruiscono un futuro grazie ad essa.
Si è dovuto arrivare ad una crisi economica, a centinaia di migliaia di cassintegrati, a milioni di persone disoccupate, alla scomparsa di un futuro e di una vita dignitosa, per rendersi conto di tutti gli errori commessi in questi anni. Meglio tardi che mai, si direbbe in questi casi, peccato che questo “tardi” scotta, e anche molto.
Caro Marchionne, la tua flessibilità e la tua voglia di progresso stanno riportando le condizioni di lavoro di questo paese indietro di oltre un secolo; altroché sviluppo. Dall'altra parte ci sono stati lavoratori ingenui e sindacati ciechi, che però adesso si trovano nella necessità di doversene uscire, e alla svelta. Così, se da una parte sindacati come la Cisl e la Uil hanno scelto di stare con i padroni, divenendo di fatto i loro alfieri, o meglio i loro servi, dall'altra la Cgil, ed in particolar modo la Fiom, hanno scelto la via diametralmente opposta. Il sindacato dei metalmeccanici in particolare si è fatto come pioniere di questo movimento che, in tutta Italia, sta cercando di far attecchire le radici, e allo stesso tempo di trovare un'unità, quantomeno di intenti, che si è dimostrata essere necessaria.
Il 16 ottobre scorso abbiamo assistito alla prima “uscita pubblica” di quella parte di Italia che non vuole piegarsi. Centinaia di migliaia di operai, lavoratori, studenti e pensionati hanno invaso piazza S.Giovanni a Roma. La richiesta di questa piazza è stata molto semplice: basta con lo sfruttamento di questi criminali, un mondo diverso è possibile, sciopero generale.
La piazza l'ha chiesto, la Fiom l'ha chiesto, la Cgil l'ha messo in stand by. In questa situazione il sindacato più grande d'Italia si trova in una fase di transizione, o meglio di scontro tra le teorie concertative nate negli ultimi decenni e quelle di lotta finite da tempo. Il problema è appunto che la dirigenza della Cgil non solo non vuole abbandonare i metodi attuali, ma non avrebbe nemmeno le capacità per fare altrimenti. Per fortuna che la Fiom c'è, verrebbe da dire. Ma anche in questo caso si creano diverse questioni. La prima rigurda le reali possibilità del sindacato dei metalmeccanici di riuscire a fare veramente da propulsore alle lotte, di riuscire a catalizzare tutti quei movimenti e tutte quelle vertenze verso un'unica direzione e un unico scopo. La seconda riguarda la possibilità per la base di riconoscere nella Fiom un valido interlocutore. Se infatti la Fiom sta portando avanti una linea valida e tutto sommato condivisibile, lo sconforto fra i lavoratori è altissimo. Trent'anni di totale disinteresse, ha portato migliaia di lavoratori a perdere fiducia (come dar loro torto) nei confronti della Cgil. Infine l'ultima questione vuole essere un po' la sintesi delle due precedenti. Nel caso si dovesse anche formare un movimento di massa deciso e forte, che fare? Il 16, a Roma, i manifestanti hanno chiesto lo sciopero generale. In Italia, però, non c'è mai stata una tradizione forte di sciopero, almeno negli ultimi 60 anni, e la paura che un fantomatico sciopero generale si possa tramutare in uno spauracchio, ma che non fa paura, perché troppo debole, c'è e preoccupa.
Lo sciopero generale è necessario, e va fatto, ma applicando i metodi che utilizzano i francesi. Blocco totale dei luoghi di lavoro da parte dei lavoratori; assemblee democratiche quotidiane degli scioperanti per scegliere se proseguire con la protesta oppure no; ma soprattutto, blocco ad oltranza fino all'ottenimento delle richieste.
La speranza è che la base dei lavoratori riesca a spostare quel pachiderma che è la Cgil verso queste posizioni, così come ha fatto la Fiom in piazza il 16 ottobre, strappando una quasi promessa di sciopero generale. Nel frattempo però è necessaria la mobilitazione di tutti.
Nelle fabbriche in crisi, in tutti i luoghi di lavoro in cui le condizioni lavorative sono precarie o insufficienti, nelle scuole e nelle università sotto attacco da parte del governo, è necessario reagire. Bisogna occupare e bloccare tutto.
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