lunedì 21 febbraio 2011

Intervista a Marcelo Galati, occupante della torre di via Imbonati (n°6, febbraio 2011)


«Aldo dice ventisei per uno» ha incontrato Marcelo Galati, uno dei cinque migranti che dal 5 novembre al 2 dicembre 2010 hanno occupato l’ormai celebre torre di via Imbonati a Milano. Questa mobilitazione, insieme a quella della gru di Brescia, è riuscita a porre al centro del dibattito politico l’ingiustizia delle truffe subite da migliaia di migranti nel corso dell’ultima sanatoria avviata nel 2009. Una sanatoria, lo ricordiamo, che innanzi tutto era diretta solo a colf e badanti, e che quindi tagliava fuori tutte le altre categorie lavorative in cui sono impiegati i migranti in Italia. Inoltre, la stragrande maggioranza dei regolarizzandi – avendo bisogno di uno sponsor – ha pagato migliaia di euro a falsi datori di lavoro italiani, molti dei quali hanno truffato i migranti e si sono intascati i soldi senza nemmeno depositare la domanda di sanatoria. Infine – a procedura già iniziata – i vertici della polizia hanno deciso di rifiutare le domande di chi in precedenza era stato condannato per il reato di clandestinità: oltre a truffare i migranti cambiando le regole a gioco già iniziato, lo Stato italiano ha trasformato di fatto molte domande di sanatoria in autodenunce di clandestinità.
Accanto alla rivendicazione del permesso di soggiorno per tutt*, accanto al rifiuto di una legge – la Bossi-Fini – che non fa altro che spingere le persone verso la clandestinità, accanto alla denuncia del razzismo di Stato che considera reato la semplice mancanza di documenti, la mobilitazione della torre è stata anche uno straordinario laboratorio di autorganizzazione. I migranti sono usciti dall’ombra e hanno cominciato a prendere in mano la propria condizione, aprendo un nuovo cammino di lotta e di liberazione. Ben consapevoli che qualsiasi scelta non potrà essere delegata a nessuno. E che ogni conquista futura partirà solo da loro stessi.
Per ragioni di spazio, pubblichiamo qui solo alcuni estratti di una lunga chiacchierata avuta con Marcelo a inizio febbraio 2011, riportando i passaggi che ci sembrano più interessanti rispetto alla sensibilità del progetto «Aldo».

ALDO: Tu sei uno dei cinque che sono saliti sulla torre di via Imbonati. Sul posto di lavoro avevi già esperienze di vertenze o di lotte?
Marcelo: Sì, alla Carlo Colombo di Agrate Brianza, una trafileria in rame dove lavoravo fino a poco tempo fa. Una vertenza che è finita con la cassa integrazione, ma se era per l’azienda ci avrebbe buttato fuori a calci in culo. Se non facevamo la forzatura di occupare il tetto della fabbrica, a quest’ora eravamo per strada.
Sei salito sul tetto anche lì?
No, no: lì sul tetto della fabbrica non sono salito io in prima persona, perché essendo delegato sindacale avevamo deciso in assemblea che i delegati rimanevano sotto in presidio permanente. Invece gli operai con meno vincoli dovevano prendersi un ruolo più importante, salire. Perché questo? Perché quando sei lì sopra, sei annullato, sei bloccato, blindato, diciamo così. Invece sotto, la tua presenza è importante per l’organizzazione del presidio. Se vai a vedere, in ordine di priorità, è più importante il presidio che l’occupazione. E questo mi ha dato sicuramente un'esperienza in più.
Prima parlavi di «forzatura».
Una forzatura che i sindacati ed i partiti politici se la sognano! Io credo che le lotte solo nascono con la forzatura, perché se non si fanno le forzature che senso ha fare le cose? Quando eravamo in riunione con il presidente della provincia di Monza e Brianza, il sindaco di Agrate, l'azienda, i sindacati e noi operai – una ventina di persone intorno al tavolo – l'azienda non ci ha dato la risposta che volevamo. Allora a metà riunione abbiamo mandato un messaggio con il cellulare: è partita l'occupazione del tetto. Un'occupazione a riunione in corso se la sognano! Non è che entriamo in riunione che c'è già l'occupazione, o usciamo di lì e si va a occupare; proprio a riunione in corso, davanti al presidente della provincia.
Durante la trattativa hai detto: «Guardate che in questo momento è stato occupato il tetto della Carlo Colombo»?
No, è entrato l’autista dell'azienda a dire: «Ci è arrivata una chiamata, l’azienda è stata occupata!». E noi lì, facendo finta di niente… poi abbiamo detto: «E adesso come la mettiamo? Tutte le chiacchiere che ci state raccontando, come le mettiamo?».
Nei vari luoghi dove hai lavorato eri l'unico migrante?
Sì, in fabbrica ero l'unico assunto a tempo indeterminato. Però c’erano i migranti che lavoravano per la cooperativa.
Di cosa si occupava la cooperativa?
Le cooperative servono praticamente per dividere i lavoratori: ci sono quelli delle cooperative e quelli con il posto fisso. Chi fa lavori direttamente con le macchine, chi lavora nella produzione, si chiama «primo settore», il settore produttivo. Prima, tutta la fabbrica stava nel primo settore, da chi faceva lo spazzino fino a chi ti cambiava un bullone. Adesso, no: sono cambiate le leggi e il primo settore è diviso dai servizi. Uno che fino a quindici anni fa faceva la guardia giurata in una fabbrica, aveva il contratto da metalmeccanico. Invece adesso la guardia giurata fa un servizio, e il servizio fa parte di un’altra categoria, quindi è del commercio, o è della polizia. È metalmeccanico solo chi mette le mani direttamente sul prodotto, chi lo trasforma. Tutti gli altri – il magazziniere, il controllo di qualità, qualunque cosa che non ha a che vedere con la produzione – è considerato servizio. Per esempio l'elettricista, il muratore, tutte quelle cose di cui c'è bisogno nella fabbrica, le fanno degli esterni che prendono il lavoro con gli appalti. Con un appalto, si possono prendere anche persone dalle cooperative, a tempo determinato. È il lavoro precario. In fabbrica era abbastanza marcata la differenza: i miei colleghi operai, quelli delle cooperative – che facevano lavoro di spostamento, magazzino, pulizia e altri tipi di lavoro – li chiamavano i «negretti». Li chiamano così perché la maggior parte erano del Senegal. La cosa curiosa è che «negretti» in realtà non voleva dire che erano del Senegal, perché c'erano anche marocchini, che non sono neri. Però il concetto di «negretti» serviva per etichettare quelli della cooperativa. C'erano anche italiani, tra i «negretti»! Napoletani, ma anche brianzoli. Giovani brianzoli, magari anche laureati, che finiscono a lavorare in una cooperativa. E che venivano etichettati come migranti.
Per via del lavoro che facevano?
Sì. Questa è una cosa eclatante: perché tu quando identifichi come diverso, puoi trattare come diverso. A me la prima domanda che mi è venuta naturale è stata: «Se lavoriamo tutti nella fabbrica, e abbiamo la mensa in fabbrica, perché loro non mangiano con noi?». È chiaro: se tu prima li identifichi come qualcosa di diverso, è logico che poi non devono mangiare con te. Perché sono un'altra cosa, sono di fuori. Quindi qui stiamo parlando non di razzismo contro chi viene da fuori e tu neanche capisci come parla, ma parliamo di razzismo nelle condizioni di lavoro. E ti posso assicurare, questo tipo di cosa non era spinto dall'azienda, l'azienda mai ha detto qualcosa per dividere gli operai. Visto che le leggi glielo hanno permesso ha creato la divisione netta tra operai a tempo indeterminato e precari della cooperativa.
I «negretti» sono iscritti al sindacato?
Non hanno il sindacato! Chi lavora in una cooperativa non ha diritto al sindacato. Non hanno diritto alla mensa, figurati se hanno diritto al sindacato! E hanno il problema del continuo rinnovo del contratto: «mi rinnovano o non mi rinnovano quando finisce il contratto a tempo determinato?» La cooperativa ogni due anni cambia ragione sociale e la gente continua ad essere precaria… i soliti giochetti che sappiamo, che tutti quanti fanno. Però è lo Stato con le sue leggi a permettere questo. Ma la mia esperienza è stata diversa. La prima volta che sono andato a lavorare in un magazzino, sono andato per una cooperativa. C'erano sei magazzinieri, tutti assunti a tempo indeterminato, tutti italiani tranne uno che era marocchino. Quando sono entrato lì, il primo giorno di lavoro, mi hanno preso negli spogliatoi, tutti, e mi hanno detto che gli dovevo dire quanto guadagnavo, senza discussioni. E io gliel'ho detto, non me ne importava molto. Allora mi hanno preso per un orecchio, mi hanno portato dal direttore, e gli hanno detto: «Stesso lavoro, stessa paga. Non permetteremo che qua entra una persona a lavorare e che guadagna meno di noi. Perché tu domani ci prendi gusto e ne prendi un altro, e poi un altro, e dopo noi perdiamo il lavoro. Quindi, o gli aumenti lo stipendio, o tu qua non porti nessuno dalla cooperativa». Mi sono trovato lo stesso giorno con lo stipendio aumentato, il buono mensa, il buono per il trasporto. In un giorno di lavoro. Grazie alla determinazione dei miei colleghi. Che me l'hanno detto chiaro: «Non lo facciamo per te, lo facciamo per noi». E lì non c'erano sindacati. Un esempio di istinto di classe. Una cosa totalmente diversa da quello che siamo abituati a sentire: una posizione netta degli operai, non sindacalizzati però per fortuna non ammaestrati. È così che si dovrebbero comportare i lavoratori italiani nei confronti degli stranieri. E ogni lavoratore italiano nei confronti dei precari. Un’idea semplice: «Stesso lavoro, stesso stipendio».
Cosa racconti della torre di via Imbonati, invece?
Quando è finita la lotta alla Carlo Colombo e sono diventato un «cassintegrato militante», mi sono avvicinato al «Comitato Immigrati in Italia» di Milano. Mi hanno chiesto una mano, e io – che non avevo mai fatto nulla sul tema dei migranti – gliel’ho data. Si tratta di un'organizzazione che ha già un'esperienza decennale a livello nazionale, e voleva organizzarsi anche a Milano. Certo, in questi anni non ha avuto una grande visibilità, ma ha fatto un lavoro che dura nel tempo: mantiene viva una lotta, fa un percorso e dà un profilo ai diversi tipi di lotta dei migranti. Un lavoro decennale, anche se non dà dei frutti positivi immediati, o neanche dà frutti in quei dieci anni, fa muovere sempre il «calderone», c'è sempre qualcuno che lo muove. Quel che è interessante è l'autorganizzazione, l’organizzazione dei migranti stessi. L'autorganizzazione produce delle cose interessanti, rompe tante barriere ed esce dagli schemi della lotta come è vista qua in Italia.
Per esempio?
Non ci sono regole! Ci sono forse regole per attaccare i migranti? No! Quindi non rispetto le regole neanche io! Pensa alla «sanatoria-truffa». Non solo le regole sono talmente strette che sembrano messe apposta per non rispettarle, ma lo Stato stesso cambia le regole durante la sanatoria. Quella della sanatoria e del permesso di soggiorno ai migranti truffati era l’esigenza più immediata. A questo si sommano altre rivendicazioni, che fanno parte della piattaforma del Comitato Immigrati in Italia: il permesso per chi ha perso il lavoro per colpa della crisi, il permesso per chi lavora in nero e denuncia i suoi datori di lavoro, il diritto di voto per chi vive in Italia da più di cinque anni, la cittadinanza per i figli di migranti che nascono qua, una legge sul diritto di asilo.
Come è stata portata avanti la mobilitazione della torre?
Si è cominciato con il chiedersi: «Abbiamo quest’esigenza. Cosa facciamo?». Innanzi tutto, un presidio per informare. Dopo che hai fatto il presidio, cosa fai? Una manifestazione per farti vedere. Quindi, chi hai informato, l’hai anche invitato a partecipare alla manifestazione. Una volta che fatta la manifestazione, fai un altro presidio per informare. Questa è una dinamica normale, che si chiama di «accumulazione». La logica è quella di fare un secondo presidio per informare altre persone, per poi organizzare un’altra manifestazione. E nel frattempo tu chiedi risposte politiche alle istituzioni. Le risposte che ci hanno dato erano a nostro favore: tanto in prefettura come in questura ci hanno detto «Sì, avete ragione, ma non possiamo fare nulla, è la legge che è così». Quindi, ci danno dato ragione sulle truffe fatte nella sanatoria, però hanno dichiarato l’incapacità di risolvere i problemi. A quel punto le associazioni iniziano a farsi altre domande: «Perché, nonostante il bel lavoro di accumulazione portato avanti, mancano le risposte politiche?» E i migranti si convincono che devono trovare il modo di fare pressione sulle istituzioni, per smettere di essere ignorati in quel modo. Bisogna mettere alle strette gli interlocutori, per obbligarli a trovare delle soluzioni.
Dopo l’esperienza della Carlo Colombo, ho fatto una proposta: «Possiamo cercare una gru di un cantiere, facciamo salire qualcuno sulla gru e facciamo diventare quella gru un problema politico per il governo, così lascia stare il presidio lì sotto». Infatti, se il tuo obiettivo è conservare la piazza del presidio e lanciare il tuo messaggio, con l’occupazione di una gru crei un problema più grande e più visibile. E metti anche una distanza di sicurezza tra occupanti e polizia: non si può sgomberare una gru come si sgombera un presidio non autorizzato in una piazza. Il presidio non autorizzato lo fai comunque, ma nessuno ti dice nulla perché stai lì per solidarietà con quelli in cima. Era quel che dicevo prima: l'importante – come alla Carlo Colombo – è il presidio, non la torre, non la gru.
La proposta di salire su un luogo elevato è piaciuta?
Sì, a Milano l’idea della torre prende, principalmente tra i militanti. Prende, però ci sono tante perplessità. Principalmente di chi? Delle associazioni, dei partiti politici e di chi lavora con i sindacati. Perché un’azione del genere, farebbe sì che i migranti prendessero l'iniziativa. Un'iniziativa che i partiti politici, le associazioni e i sindacati non sono capaci di prendere. Loro dicono che hanno dei vincoli e che la situazione non è ancora matura per prendere quella decisione. Però i migranti non hanno questi vincoli – quello di cui parlavamo prima – e si possono permettere di fare la «forzatura», di salire sulla torre. Quindi – paradossalmente – i migranti diventano il vero problema delle organizzazioni, dei partiti politici, dei sindacati. Perché mettono in evidenza la loro incapacità, perché sono capaci di fare quello che loro non sono capaci di fare, magari con due milioni di iscritti. Ovviamente, perché i migranti non hanno niente da perdere, e se invece tu hai due milioni di iscritti… hai due milioni di iscritti da perdere, hai da perdere la tua posizione sociale, tutto quel che guadagni, e la possibilità di farti candidare ad alcuna carica politica alle prossime elezioni. Quindi era questo, paradossalmente, il problema.
L’autorganizzazione dei migranti ha funzionato?
Io credo che lì, la gente lì sotto, il fatto di andare al presidio e non riconoscere leader, ha aiutato tantissimo le persone ed autosvilupparsi. Il problema è che la mancanza di una direzione reale sotto alla torre ha lasciato giocare abbastanza bene i partiti e le organizzazioni.
In che modo?
Perché andavano a garantire alle autorità che la soluzione della questione della torre passava per la loro responsabilità, si presentavano come i rappresentanti dei migranti. E la soluzione della questione era zittire le persone al presidio e mandarle a casa, anche se il problema della sanatoria e dei permessi non era ancora stato risolto. E questo è grave.
C’è una spiegazione sul perché si sono comportati così. Dicevano di dover prendere quella posizione da pompieri per salvaguardare l'integrità dei migranti, perché in teoria la polizia poteva attaccare il presidio in qualunque momento. Cosa che si è dimostrata falsa: il presidio è durato cinquanta giorni e non c'è stato nessun attacco. Però quest’idea di salvaguardare i migranti in realtà nascondeva la salvaguardia di loro stessi: perché venivano identificati dalle autorità come le persone che avevano organizzato tutto. Quindi era in pericolo una credibilità e uno status sociale che avevano acquistato in anni di attività. Insomma, la loro posizione era in pericolo per aver dato spazio ai migranti autorganizzati. Sì perché, alla fine, questi sindacati e questi partiti – consapevole o inconsapevolmente – avevano dato spazio all’autorganizzazione dei migranti.

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