mercoledì 24 novembre 2010

Comunicato da lettere e filosofia occupata‏ (Pavia)

Oggi, 24 Novembre 2010, le Studentesse e gli Studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Pavia hanno deciso – conseguentemente alla votazione unanime avvenuta in Assemblea Generale – di occupare la Sede Centrale della Facoltà.
Questa occupazione muove dalla volontà comune di tutti gli Studenti di prendere una posizione attiva, decisa e forte contro un Disegno di Legge che mira alla distruzione della Pubblica Università.
La proposta si sta svolgendo contemporaneamente alla Discussione nelle Camere del DDL Gelmini. L’autonoma iniziativa studentesca ha trovato l’approvazione e l’appoggio del Consiglio della Facoltà che ha preso una chiara posizione bloccando la didattica fino in data 26 c.m.
Studenti e Studentesse dell’Università di Pavia, forti della collaborazione di molti tra Docenti e Ricercatori, intendono estendere l’occupazione a tutte le Facoltà dell’Ateneo, al fine di bloccare la Riforma proposta dal Ministero dell’Istruzione.

Prossime iniziative:
Occu-party, questa sera, 24-11-10, dalle ore 22.00, Aula del ’400
Domani, 25-11-10, Assemblea, ore 11.00, Cortile delle Statue
A seguire: mobilitazione studentesca permanente

http://cuapavia.noblogs.org/post/2010/11/24/comunicato-da-lettere-e-filosofia-occupata/

lunedì 22 novembre 2010

sabato 20 novembre 2010

Solidarietà occupazione Aula Magna Sotterranea


17 nov. corteo & occupazione

Il 17 novembre, giornata mondiale di mobilitazione per il diritto allo studio si sono tenuti cortei in cento città italiane: oltre 200 mila studentesse e studenti sono scesi in piazza.
Anche a Pavia i cortei di universitari e studenti delle superiori si sono fusi in una determinata manifestazione unitaria che ha visto la partecipazione di centinaia di persone.
Al centro della mobilitazione, ovviamente, l’ennesimo progetto di riforma dell’Università steso dal ministro Gelmini, preceduto dai tagli che ormai da anni affamano gli Atenei.
Abbiamo anche oggi ribadito la nostra totale indisponibilità ad accettare la dismissione definitiva dell’Università pubblica: dietro alla retorica della meritocrazia e dell’efficienza si nascondono la privatizzazione degli Atenei, la mercificazione del sapere e l’istituzione di barriere sociali all’accesso alla cultura.
Contro la retorica della crisi, occorre rilanciare l’unità dei soggetti sociali colpiti dalle politiche di austerità, servono autorganizzazione, processi di autoformazone, servizi autogestiti.
Ci stiamo riprendendo il futuro e i diritti che ci spettano, non accettiamo un esistenza precaria.
L’assemblea svoltasi in chiusura del corteo ha deciso di occupare l’aula magna sotterranea dell’università per farne luogo di controinformazione e mobilitazione in vista della discussione alla Camera del DDL Gelmini, il prossimo giovedì 25 novembre.
Smettila di aspettare che qualcuno ti aiuti, non succederà. Vieni in aula magna sotterranea e organizzati con chi condivide la tua condizione.

http://facebook.com/studentincrisi
http://cuapavia.noblogs.org

mercoledì 10 novembre 2010

critical mass 11 novembre pavia


sabato 6 novembre 2010

Venerdì 12 novembre, ore 21, Serata sul diritto alla casa




La Francia è vicina... (n°5, novembre 2010)


Alla fine, dopo anni di finte ambiguità, Sergio Marchionne ha aperto il fuoco, e lo ha fatto ad alzo zero. Il suo progetto, oltre a riguardare la più importante impresa del paese, è destinato a ripercuotersi su tutto il mondo del lavoro dipendente. Nei suoi interventi la parola più frequente è “flessibilità”, termine molto inflazionato in questi ultimi anni; ma se nella bocca di qualche imprenditore può suonare bene e dare l'idea di innovazione e di attualità, per i lavoratori dipendenti significa una cosa sola, che forse è meglio non riportare per educazione. E invece no, diciamola: per i lavoratori dipendenti significa prenderselo nuovamente nel culo.
Basta diritto di sciopero, basta limite di straordinari, basta troppe pause durante il turno di lavoro, basta contrattazione nazionale. Con questo progetto, Marchionne spiana definitivamente la strada alla distruzione dei diritti e di tutta una serie di garanzie per i lavoratori.
L'amministratore delegato della Fiat parla in continuazione della necessità di superare schemi e ragionamenti “vecchi”, anacronistici, non più applicabili in questo nuovo XXI secolo. Tutte le parti sociali dovrebbero fare un passo indietro, e venire incontro alle esigenze della controparte. Peccato che in questo fantomatico “patto sociale” sono solo i lavoratori a dover fare rinunce nei confronti degli imprenditori, dei padroni. Da più di trent'anni i sindacati confederali hanno accettato questa linea e sono passati dal sindacalismo di scontro, di lotta, a quello di concertazione. Ogni volta che si presenta una vertenza, una fabbrica che vuole chiudere per esempio, il sindacato tratta con l'azienda, cercando una via d'uscita poco dolorosa per gli operai, il meno peggio, insomma. Per decenni è sembrato che questa pratica fosse vincente, che forse quella lotta riassunta fino a poco prima col nome di “classe” fosse superata e che gli imprenditori, divenuti improvvisamente illuminati, avessero iniziato a tener conto delle esigenze e dei diritti dei loro dipendenti.
È dovuta scoppiare la crisi economica più grande da quella famosa del 1929 per aprire definitivamente gli occhi dei lavoratori; per capire che i metodi utilizzati fin'ora non solo non hanno dato risultati, ma sul lungo periodo hanno addirittura portato ad un arretramento sostanziale delle condizioni lavorative. Si sono spalancate le porte al precariato, alla libertà di un'impresa di poter chiudere quando meglio crede senza tener conto che con quella decisione delle persone si troveranno in mezzo alla strada. Ci siamo completamente dimenticati, o non lo vogliamo più vedere, che un'impresa, qualunque essa sia, non è un'entità libera, scollegata dal tessuto sociale in cui si trova e produce; ma ha di fatto una funzione sociale, nel momento in cui col lavoro che essa mette a disposizione ci sono delle famiglie intere di lavoratori che vivono e si costruiscono un futuro grazie ad essa.
Si è dovuto arrivare ad una crisi economica, a centinaia di migliaia di cassintegrati, a milioni di persone disoccupate, alla scomparsa di un futuro e di una vita dignitosa, per rendersi conto di tutti gli errori commessi in questi anni. Meglio tardi che mai, si direbbe in questi casi, peccato che questo “tardi” scotta, e anche molto.
Caro Marchionne, la tua flessibilità e la tua voglia di progresso stanno riportando le condizioni di lavoro di questo paese indietro di oltre un secolo; altroché sviluppo. Dall'altra parte ci sono stati lavoratori ingenui e sindacati ciechi, che però adesso si trovano nella necessità di doversene uscire, e alla svelta. Così, se da una parte sindacati come la Cisl e la Uil hanno scelto di stare con i padroni, divenendo di fatto i loro alfieri, o meglio i loro servi, dall'altra la Cgil, ed in particolar modo la Fiom, hanno scelto la via diametralmente opposta. Il sindacato dei metalmeccanici in particolare si è fatto come pioniere di questo movimento che, in tutta Italia, sta cercando di far attecchire le radici, e allo stesso tempo di trovare un'unità, quantomeno di intenti, che si è dimostrata essere necessaria.
Il 16 ottobre scorso abbiamo assistito alla prima “uscita pubblica” di quella parte di Italia che non vuole piegarsi. Centinaia di migliaia di operai, lavoratori, studenti e pensionati hanno invaso piazza S.Giovanni a Roma. La richiesta di questa piazza è stata molto semplice: basta con lo sfruttamento di questi criminali, un mondo diverso è possibile, sciopero generale.
La piazza l'ha chiesto, la Fiom l'ha chiesto, la Cgil l'ha messo in stand by. In questa situazione il sindacato più grande d'Italia si trova in una fase di transizione, o meglio di scontro tra le teorie concertative nate negli ultimi decenni e quelle di lotta finite da tempo. Il problema è appunto che la dirigenza della Cgil non solo non vuole abbandonare i metodi attuali, ma non avrebbe nemmeno le capacità per fare altrimenti. Per fortuna che la Fiom c'è, verrebbe da dire. Ma anche in questo caso si creano diverse questioni. La prima rigurda le reali possibilità del sindacato dei metalmeccanici di riuscire a fare veramente da propulsore alle lotte, di riuscire a catalizzare tutti quei movimenti e tutte quelle vertenze verso un'unica direzione e un unico scopo. La seconda riguarda la possibilità per la base di riconoscere nella Fiom un valido interlocutore. Se infatti la Fiom sta portando avanti una linea valida e tutto sommato condivisibile, lo sconforto fra i lavoratori è altissimo. Trent'anni di totale disinteresse, ha portato migliaia di lavoratori a perdere fiducia (come dar loro torto) nei confronti della Cgil. Infine l'ultima questione vuole essere un po' la sintesi delle due precedenti. Nel caso si dovesse anche formare un movimento di massa deciso e forte, che fare? Il 16, a Roma, i manifestanti hanno chiesto lo sciopero generale. In Italia, però, non c'è mai stata una tradizione forte di sciopero, almeno negli ultimi 60 anni, e la paura che un fantomatico sciopero generale si possa tramutare in uno spauracchio, ma che non fa paura, perché troppo debole, c'è e preoccupa.
Lo sciopero generale è necessario, e va fatto, ma applicando i metodi che utilizzano i francesi. Blocco totale dei luoghi di lavoro da parte dei lavoratori; assemblee democratiche quotidiane degli scioperanti per scegliere se proseguire con la protesta oppure no; ma soprattutto, blocco ad oltranza fino all'ottenimento delle richieste.
La speranza è che la base dei lavoratori riesca a spostare quel pachiderma che è la Cgil verso queste posizioni, così come ha fatto la Fiom in piazza il 16 ottobre, strappando una quasi promessa di sciopero generale. Nel frattempo però è necessaria la mobilitazione di tutti.
Nelle fabbriche in crisi, in tutti i luoghi di lavoro in cui le condizioni lavorative sono precarie o insufficienti, nelle scuole e nelle università sotto attacco da parte del governo, è necessario reagire. Bisogna occupare e bloccare tutto.

Pavia e provincia. Bollettino di una crisi che continua a colpire. Giugno-ottobre 2010. (n°5, novembre 2010)


Giugno
• Finisce con 22 licenziamenti la vicenda della Tanino Crisci di Casteggio. I dirigenti della Gulf Finance & Investment, proprietaria del marchio, vogliono aprire nuovi punti vendita in Arabia (oltre ai negozi a Milano, Parigi e New York) e intanto lasciano senza un lavoro più della metà degli operai di Casteggio, ai quali devono ancora pagare gli stipendi degli ultimi mesi.
• Nel primo quadrimestre del 2010 l’uso della cassa straordinaria (spesso anticamera di tagli al personale) è aumentato di 20 volte: da 58mila ore a 1milione236mila. Diminuisce di un terzo quella ordinaria perché in molti casi le imprese l’hanno esaurita.
• Messi in cassa straordinaria i 45 dipendenti della Tocchio di Vigevano, produzione di macchine per legno e carta: l’azienda non ha liquidità per anticipare i soldi della cassa e i lavoratori rischiano di passare mesi senza ricevere un euro.
• Da febbraio non hanno più visto un centesimo i lavoratori della Maut di Voghera, realizzazione di macchine utensili, ormai fallita e ferma da metà 2009. Il ministero non ha ancora dato l’autorizzazione per la cassa straordinaria.

Luglio
• Inaugurato il grande magazzino Grancasa a Cava Manara, al posto del vecchio Casamercato. Dopo mesi senza stipendio e un lungo periodo in cassa integrazione tornano al lavoro in 62, in 12 perdono il posto.
• Annunciati per metà settembre 14 licenziamenti alla Nuova Protex di Cura Carpignano, produzione di vetri speciali, 57 dipendenti in cassa integrazione a rotazione. Poi un lavoratore dà le dimissioni volontariamente, per cui restano 13 licenziamenti.

Agosto
• Secondo i dati della Cgil Lombardia, da gennaio a luglio 2010 sono state 1625 le lettere di licenziamento partite in provincia di Pavia. La maggior parte di chi ha perso il posto lavorava in aziende sotto i 15 dipendenti. I licenziamenti sono in aumento, erano stati 1456 nello stesso periodo dell’anno scorso.
• Ancora crisi pesante anche per le piccole imprese, con un +40% di fallimenti e l’utilizzo della cassa integrazione in deroga che è aumentato del 500% in un anno.

Settembre
• Si riparla di una possibile chiusura per la Merck Sharp & Dohme di via Emilia a Pavia. La multinazionale farmaceutica si sta riorganizzando, in altre parole sta tagliando posti di lavoro e chiudendo alcuni dei quasi 100 stabilimenti sparsi per il mondo. Quelli di Comazzo, provincia di Lodi, e di Segrate nel milanese dovrebbero chiudere a breve: questo significherebbe circa 200 licenziamenti in Italia. Oggi sono 270 i dipendenti rimasti a Pavia, dopo i continui tagli degli ultimi anni. Da Roma arriva la notizia che la produzione a Pavia continuerà, che operai, ricercatori e impiegati pavesi possono stare tranquilli, ma solo fino al 2012. Poi nessuna certezza.
• Dopo 26 settimane di cassa ordinaria, inizia un anno di cassa straordinaria a rotazione per i 100 dipendenti della Record di Garlasco, produzione di materiali per l’edilizia, di proprietà della irlandese Crh.
• Si conclude la vertenza alla Nuova Protex di Cura, con 10 operai licenziati. Alcuni dei lavoratori arriveranno in mobilità alla pensione, gli altri dovranno affidarsi a corsi di formazione sperando in nuove opportunità di lavoro.
• 110 licenziamenti annunciati per il marzo 2011 alla Genset di Villanova, produzione di generatori e saldatrici industriali (la quinta impresa meccanica della provincia di Pavia per dipendenti, da 5 anni di proprietà della Mase Generators). Attualmente i dipendenti sono 182, in cassa straordinaria a rotazione da questa primavera.
• La Atom di Vigevano sta aprendo la procedura di mobilità per 74 dipendenti su 200. I licenziamenti dovrebbero partire a dicembre alla fine di un anno di cassa straordinaria che ha riguardato 109 lavoratori. Secondo la proprietà l’unico spiraglio, che in realtà consentirebbe solo un rinvio del licenziamento, sarebbero nuovi fondi statali per la cassa in deroga.

Ottobre
• Vicina al fallimento la Salvadeo, azienda meccanica di Voghera: 17 lavoratori rischiano il posto e intanto da luglio non ricevono lo stipendio. A metà agosto è finita la cassa ordinaria e dovrebbe partire la richiesta per quella straordinaria. Molto difficile che la proprietà (indebitata) anticipi i soldi agli operai se la cassa sarà concessa.
• Nuova occupazione degli uffici di Finbieticola a Voghera da parte dei 22 ex dipendenti dello zuccherificio di Casei Gerola. Si tratta di una risposta alla decisione della regione di fermare il progetto della centrale elettrica a sorgo (approvato invece a Roma) che avrebbe dovuto garantire un posto di lavoro per questi lavoratori, attualmente in cassa integrazione. Per loro la cassa, già prorogata, scade il 31 dicembre: da quel giorno, dopo anni di promesse non mantenute, saranno senza un reddito.
• Dai dati aggiornati a settembre, nel confronto con i primi 9 mesi del 2009, emerge che in provincia di Pavia continuano ad aumentare i licenziamenti (fino ad ora sono stati quasi 2 mila contro i 1800 dello stesso periodo dell’anno scorso) e l’uso della cassa straordinaria (addirittura + 519%), molto spesso anticamera dei tagli al personale. In tutta la Lombardia i posti di lavoro persi in questi 9 mesi sono stati 42 mila, il tasso di disoccupazione sta aumentando e tra le nuove assunzioni si arriva al record del 75% di contratti precari.

Amianto: rompere il silenzio (n°5, novembre 2010)


Ogni anno, crisi o non crisi, in Italia oltre mille persone perdono la vita lavorando. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, si permette di definire la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro “un lusso che non possiamo più permetterci” (Meeting di Comunione e liberazione, Rimini, 23/8/2010, applausi dalla platea…). Tra tutti gli infortuni sul lavoro si arriva al dato di circa un milione all’anno. Queste cose non fanno notizia, di solito non basta neanche il morto, ci vuole la strage. La Ilva di Taranto ha il record di infortuni mortali in Italia ma se ne parla pochissimo, perché lì di solito gli operai muoiono uno alla volta. Una alla volta muoiono anche le tante vittime di malattie professionali. 25 mila persone ogni anno si ammalano lavorando, 1000 di tumore. Alcune di queste malattie sono causate dalla respirazione di fibre di amianto. Una delle più comuni è l’asbestosi, che consiste in una insufficienza respiratoria cronica. Ma le vittime dell’amianto (in Italia oltre 2 mila morti l’anno) si devono soprattutto al mesotelioma pleurico, il tumore della pleura, la membrana che riveste esternamente i polmoni e internamente la cassa toracica. Sono 9 mila i casi registrati tra il ‘93 e il 2004, il 70% di questi è dovuto a un’esposizione avvenuta sul posto di lavoro. E oltre al mesotelioma pleurico, ci sono i tumori al polmone, al peritoneo, alla laringe e alle ovaie.
Già nel 1964 a New York il ricercatore Irving Seljakov dimostra che di amianto si può morire. In Italia uno studio comparso nell’ottobre 1972 sulla rivista Medicina del lavoro mostra una buona conoscenza della pericolosità dell’amianto e delle possibili precauzioni da adottare sui luoghi di lavoro. Ma già prima, addirittura negli anni ’30, nella Germania nazista, i tumori legati alle fibre di amianto vengono classificati tra le malattie professionali. Eppure in Italia (paese al secondo posto in Europa per la quantità di amianto lavorato) solo nel 1992 viene approvata una legge che ne mette al bando la lavorazione e l’utilizzo e impone la bonifica su tutto il territorio. Infatti il problema non riguarda solo le fabbriche in cui si lavora questo materiale, ma anche i prodotti che da quelle fabbriche escono. L’edilizia è sempre stata un campo di utilizzo di amianto, in particolare quella popolare, per i bassi costi del materiale: un esempio è quello delle case popolari di via Feltrinelli a Milano, dove vivono 152 famiglie e dove sono già 10 le persone che si sono ammalate di mesotelioma.


Casale Monferrato. A Casale Monferrato l’amianto si lavora per 80 anni, dal 1906 al 1986, anno di chiusura dello stabilimento della Eternit. Da questa cittadina in provincia di Alessandria proviene il 40% della produzione italiana di cemento amianto (oltre alla Eternit, anche la Fibronit ha una fabbrica a Casale). A contatto diretto con le fibre di amianto lavorano migliaia di persone: solo la Eternit ne assume 5 mila a partire dagli anni ’50, e nei primi ’80 ancora 600 operai lavorano in questo stabilimento. Non si ammalano solo gli operai: l’amianto entra nelle case sulla loro pelle e sulle tute che le mogli lavano. A diffondere la polvere in città ci pensa anche la fabbrica stessa: l’amianto viene in parte aspirato, perché si possa vedere qualcosa nei reparti, ed esce dallo stabilimento, dove segue il vento. Inoltre la Eternit regala un po’ di materiale di scarto ai suoi dipendenti, per farci qualche manufatto, qualche pavimentazione: così la polvere si accumula a mucchi nei cortili, dove i bambini ci giocano come se fosse sabbia. Nel 1947 l’asbestosi è riconosciuta come malattia professionale e con gli anni ’50 e ’60 iniziano ad arrivare richieste di maggiore protezione. Ancora però i lavoratori non hanno idea del massacro che sta avvenendo e a cercare di mantenere il silenzio c’è l’atteggiamento della direzione: chi parla, quando non viene licenziato, viene trasferito al “confino” nei reparti più nocivi.
Nell’86 lo stabilimento Eternit chiude, ma a Casale si continua a morire: con gli anni ’90 c’è un aumento fino a 45 nuovi casi di mesotelioma all’anno. Anche alcuni dirigenti, gli stessi che fanno passare sotto silenzio la situazione degli operai (e che nei bollettini aziendali fanno scrivere che i lavoratori stiano attenti alle sigarette, perché fanno venire il cancro…), finiscono con l’ammalarsi e morire. Ma sopra di loro c’è chi fa finta di niente anche di fronte alla loro morte.
Dopo una prima causa conclusa nell’87 con il riconoscimento economico dei danni subiti dai lavoratori, anche l’associazione dei famigliari delle vittime si rivolge alla procura di Casale: inizia un processo con 1700 parti lese e nel giugno ‘93 6 dirigenti vengono condannati per omicidio colposo, ma a pene da 1 a 3 anni, per cui non si fa neanche un giorno di carcere.
Nel 2004 anche la procura di Torino apre un’indagine sulla Eternit, arrivando ad accertare nei 5 stabilimenti italiani 2960 morti per esposizione all’amianto. Le accuse arrivano per la prima volta in Belgio e in Svizzera, dove si prendono le decisioni sulle politiche della sicurezza seguite in tutti gli stabilimenti del gruppo. Vengono rinviati a giudizio i proprietari della Eternit Stephan Schmidheiny (tra l’altro rappresentante all’Onu per lo sviluppo sostenibile…) e Jean Loui de Cartier de Marchienne. Le accuse che si trovano di fronte sono semplici: sapevano quali rischi comportava lavorare l’amianto e non hanno preso provvedimenti. Anzi, da quando è riconosciuto che l’amianto provoca il cancro, negli stabilimenti Eternit se ne usa il doppio di prima. L’Associazione italiana esposti amianto ha chiesto l’integrazione del capo d’accusa con la contestazione di omicidio volontario con dolo eventuale e strage. In un comunicato ha dichiarato: “i morti sul lavoro, le vittime dell’amianto e dei cancerogeni usati nei processi di produzione non sono mai frutto di fatalità ma di scelte imprenditoriali di padroni che subordinano la vita umana al profitto”. Il processo è attualmente in corso.


Non solo Eternit. A differenza della Eternit, ai cantieri navali di Monfalcone (Gorizia), l’amianto non si lavora, ma lo si usa soltanto, per i rivestimenti, gli isolamenti termici, le porte ignifughe. Tra chi lavora a Monfalcone, alcune stime parlano di oltre 2000 vittime solo a partire dal 1980. Duilio Castelli, operaio Fincantieri che convive con l’asbestosi dal 1971, fonda nel 1994 l’Associazione esposti amianto di Monfalcone, alla quale si associano molte vedove di operai dei cantieri. Quello che non possono sopportare è il silenzio nel quale sono finiti i loro mariti una volta morti, il silenzio che pesa su Monfalcone sulla questione amianto e sulle responsabilità dei dirigenti. Iniziano a fare presidi ogni settimana sotto il tribunale di Gorizia, riprendendo l’esempio delle famose Madri di Plaza de Mayo, in lotta per avere giustizia sui casi dei loro figli “desaparecidos”, oppositori fatti sparire nel nulla durante la dittatura militare argentina. Le prime richieste di rinvio a giudizio per dirigenti della Fincantieri di Monfalcone arrivano nel 2004, con le accuse di non aver avvertito i lavoratori dei rischi che correvano, non aver fornito le protezioni adeguate, insomma avere saputo e taciuto. La prescrizione permette a molti imputati di uscire di scena prima della fine dei processi: l’unica sentenza arriva per la morte di Annamaria Greco, addetta alle pulizie, con la condanna a un anno per omicidio colposo al dirigente Manlio Lippi. Ovviamente la pena è sospesa con la condizionale.
L’Italia è piena di casi di vere e proprie stragi dovute all’amianto, o meglio ai profitti che qualcuno con l’amianto deve farci: si va dai 77 morti alla Breda di Sesto, a quelli nei diversi stabilimenti Ansaldo, ai 34 morti accertati alla Goodyear di Cisterna (Latina). Oltre agli stabilimenti Eternit, Fibronit e Sacelit, oltre alla decina di fabbriche di cemento amianto in Emilia, ai petrolchimici e ai cantieri navali, c’è il caso della miniera a cielo aperto di Balangero, provincia di Torino, la più grande miniera d’amianto in Europa, dove l’estrazione continua fino al 1990. Nella grande maggioranza dei casi nessuno ha pagato e, anche se si è arrivati a un processo, prescrizione, condoni e indulti hanno evitato il carcere a moltissimi dirigenti e padroni. Una parziale eccezione a Palermo, lo scorso aprile, quando vengono condannati 3 dirigenti di Fincantieri, con pene da 3 a 7 anni (meno 3 anni di condono da togliere): questo per i responsabili accertati della morte di 29 lavoratori. Certo, vicino alla parola omicidio c’è l’aggettivo “colposo” che attutisce, e di molto, le responsabilità penali, ma la sostanza rimane quella.


Broni e la Fibronit. La Cementifera Italiana Fibronit inizia la sua produzione a Broni nel 1919. Dal ‘32 al ‘93 in questa cittadina si lavora l’amianto per costruire tubi, lastre di copertura, canne per camini e altri manufatti. Entrata in vigore la legge del ‘92, la Fibronit costituisce un ramo d’azienda per la produzione di tubi in fibro-cemento con sistema ecored (senza amianto), rimanendo negli stessi capannoni, senza nessuna opera di pulizia. Dopo la chiusura definitiva la proprietà non fa nulla per la bonifica. Successivamente con soldi pubblici vengono eseguiti solo gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza, mentre a breve dovrebbe partire la bonifica vera e propria.
La contaminazione porta circa 500 persone alla morte e altre centinaia ad una gravissima patologia: secondo l’Istituto superiore della sanità, a Broni è in atto la seconda epidemia più grave dopo quella di Casale Monferrato. La strage è in corso: solo tra il 2000 e il 2005 vengono diagnosticati 184 mesoteliomi, di cui 130 per esposizione diretta, mentre 54 sono casi di famigliari di operai o semplicemente di persone che abitano o lavorano nei dintorni della fabbrica. E, dato il lungo periodo di latenza tra esposizione all’amianto e manifestazione del tumore, il picco della mortalità deve ancora essere raggiunto, è previsto tra il 2015 e il 2020.
Un processo sta per iniziare anche per il caso Fibronit, dopo l’esposto presentato da Legambiente e sottoscritto da circa 80 persone. Prima, in un clima di silenzio e rassegnazione, soltanto due cittadini avevano presentato denuncia. Gli imputati saranno dieci dirigenti dell’azienda: Dino Stringa, Teodoro Manara, Michele Cardinale, Lorenzo Mo, Claudio Dal Pozzo, Giovanni Boccini, Guglielma Capello, Maurizio Modena, Domenico Salvino, Alvaro Galvani. Le accuse sono omicidio colposo, disastro colposo e violazione delle norme per la prevenzione delle malattie sul lavoro, con l’aggravante di avere “omesso volontariamente”. Questo particolare può significare un triplicamento delle eventuali pene e del tempo di prescrizione. Al di là delle responsabilità che verranno accertate, molti si presenteranno sul banco degli imputati con la certezza di avere ormai evitato il carcere, se non altro per l’età. È il caso, tra gli altri, di Stringa, 85 anni, amministratore della Fibronit dal 1969 al 1987 e per 4 anni direttore dello stabilimento.


Voghera e le Ogr. Quello della Fibronit non è un caso isolato nemmeno in Oltrepò. Ultimamente è venuto fuori sulla stampa locale (ma chi ci lavora di amianto ne parla da sempre) il caso delle ex Officine grandi riparazioni delle Ferrovie a Voghera. Alle Ogr gli operai utilizzano l’amianto per anni, senza nessuna precauzione specifica, per l’isolamento termico e acustico e l’ignifugazione: in particolare l’ignifugazione viene fatta a spruzzo, il che dà luogo ad altissime polverosità ambientali. Secondo uno studio sindacale, anche se la bonifica di vagoni e locomotive è iniziata nei primi anni ‘80, ancora oggi a Voghera, all’Officina manutenzione ciclica di Trenitalia, dove lavorano in 300, si eseguono inconsapevoli interventi a contatto con l’amianto, a causa di una mappatura errata della presenza di questo materiale sui treni.
Sono un centinaio i lavoratori che hanno avviato le pratiche per il riconoscimento almeno del rischio di malattia professionale. Questo può essere utile per fini pensionistici, ma a patto che l’esposizione all’amianto sia di almeno 10 anni, quando per ammalarsi può bastare molto meno, in casi limite addirittura respirare una sola fibra d’amianto. Non ci sono al momento dati precisi e si parla di una ventina di casi di mesotelioma pleurico, ma purtroppo i precedenti non lasciano tranquilli i lavoratori vogheresi. Se non bastasse il caso della vicina Broni, è inquietante il dato che arriva dalle officine di Bologna, dove si faceva lo stesso lavoro di Voghera: tra quei manutentori sono 150 le morti accertate dovute all’esposizione all’amianto. Al contrario di Bologna, fino ad ora dai dipendenti delle ex Ogr non ci sono stati esposti contro l’azienda, quindi non è mai partita un’inchiesta della magistratura.
Di certo non saranno una o più condanne in tribunale a rendere giustizia per quello che è successo, ma l’attenzione sul processo Fibronit, sulle ex Ogr e sugli interventi di bonifica va mantenuta alta: dobbiamo sostenere tutti i lavoratori, i cittadini e le associazioni che stanno provando a rompere il silenzio che per anni ha di fatto permesso l’impunità per i responsabili delle stragi di amianto.

Diritto al tetto (n°5, novembre 2010)


Non è il primo caso di sfratto nella provincia di Pavia, purtroppo non sarà nemmeno l’ultimo, eppure la storia della signora Zappalà di Gambolò è in qualche modo unica. Di fronte all’impossibilità di pagare un affitto, con un figlio a carico e senza un lavoro la signora Irene si vede crollare sulla testa una sentenza di sfratto. Cerca aiuto dalle istituzioni e trova solo porte chiuse. Cerca aiuto nel paese e trova quello della comunità Sinti che le offre una sistemazione in una roulotte, la aiuta a tirare avanti. La signora Zappalà, superando la vergogna di ammettere la propria difficoltà fa una scelta forte, una scelta coraggiosa: la signora Zappalà occupa. Si tratta dell’appartamento adiacente alla stazione di Gambolò-Remondò. Un posto fatiscente ma che con l’aiuto di un po’ di amici volenterosi sistema e rende confortevole ed accogliente. Parla con tanti giornalisti, tanti politici che si accorgono che aveva chiesto il loro aiuto solo quando forse ne possono ricavare un po’ di visibilità; parla con tanta gente che la aiuta, che tenta di darle una mano perché in fondo si sente partecipe della sua situazione.
Oggi la signora Irene non ha ancora finito di lottare, sta ancora aspettando la firma dell’accordo che le assegnerà legalmente quella casa e non ha ancora ottenuto l’allaccio della corrente elettrica, ha però capito tante cose grazie all’esperienza attraverso la quale è dovuta e sta ancora passando: la casa è un diritto e i diritti si conquistano. Anche con scelte forti, anche con coraggio.
Fornire dei dati certi sulla situazione degli sfratti nella provincia di Pavia risulta operazione difficile. Lo stato disastroso dell’assistenza offerta dalle istituzioni sul tema infatti, non arriva nemmeno a fornire un censimento attendibile ed aggiornato della situazione.
Di certo la crisi in città e provincia ha colpito e sta ancora colpendo duro. I posti di lavoro persi sono stati tanti, le famiglie che si sono viste portare via un reddito tantissime. I piani di edilizia popolare sono evidentemente insufficienti. Gli unici dati relativi alla situazione pavese ce li fornisce Giovanni Giovanetti dalle pagine del suo blog: “Nella provincia di Pavia oltre duemila famiglie sono a rischio di sfratto. Per la precisione, tra sfratti pendenti (844) e richieste di esecuzione (1.172) si sommano 2.016 casi. Aumentano del 27 per cento gli sfratti per morosità (nel 2009 se ne sono avuti 790, di cui 127 a Pavia); calano del 10 per cento quelli per finita locazione”. Di certo il problema del diritto alla casa non riguarda solo il territorio pavese, in Europa la crisi abitativa colpisce 70 milioni di persone mal alloggiate, di cui circa 18 milioni sotto sfratto e 3 milioni senzatetto. Tale numero sta ulteriormente crescendo a causa degli effetti della sopra citata crisi finanziaria globale, che sta facendo perdere la casa a livello europeo a circa 2 milioni di famiglie per morosità dei mutui. In altre realtà, in altre città, i cittadini esasperati da situazioni invivibili hanno deciso che non è più il momento di questuare e piangere per avere ciò che gli spetta. Molte sono le esperienze di occupazioni a scopo abitativo che si stanno sviluppando in tutta la penisola ed anche oltre i nostri confini. Il punto di forza del movimento di lotta per il diritto alla casa è la rete delle occupazioni abusive.
La condizione di occupante nasce infatti immediatamente come condizione di lotta, e gli stessi occupanti costituiscono quasi sempre un settore sociale estremamente unito e combattivo. Le occupazioni abusive sono un punto di forza anche per un altro motivo: con esse l' emergenza casa cessa di essere un discorso teorico e si veste di una concretezza drammatica e quotidiana. Anzi, sono proprio le occupazioni a far vivere la questione "casa” come uno dei fatti centrali della vita sociale. L’occupazione delle case sfitte, disabitate o in costruzione è diventata una realtà largamente diffusa che coinvolge famiglie e singoli operai, disoccupati, immigrati e giovani coppie.
Sotto il profilo legale, occorre in primo luogo fare una distinzione fra violazione della norma penale e di quella civile: chi occupa abusivamente un alloggio di proprietà pubblica può commettere il reato di occupazione abusiva, per il quale può subire una condanna penale e viola comunque una norma civile che consente al sindaco di far allontanare dai locali di edilizia pubblica l’occupante abusivo.
La norma penale di riferimento è l'art. 633 del codice penale ai sensi del quale: Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa,con la reclusione fino a due anni o con una multa da 103 euro a 1032 euro. Le pene si applicano congiuntamente, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi.
Anche a causa della forza di questi mezzi repressivi, l’ affermazione del diritto alla casa si può rivestire di concretezza solo in un percorso di lotta. Una lotta che rivendichi dei punti imprescindibili: il diritto alla casa rientra nella sfera dei bisogni primari, necessari e fondamentali alla stessa sopravvivenza, diritti inalienabili delle persone: non è cosa che può essere affrontata con provvedimenti giudiziari. Lo sfratto, qualsiasi sfratto, non è un fatto privato tra proprietario ed inquilino: esso è invece un fatto politico, d'urgente e drammatica rilevanza sociale.
I milioni di sfratti pendenti mirano soltanto a far crescere il numero dei bisognosi di case, gente sottoposta all’ odioso ricatto che va sotto il nome di "libero mercato delle locazioni". Ciò avviene in presenza di un patrimonio immobiliare consistente tenuto sfitto in nome della legge del profitto e del privilegio della rendita. Un censimento delle case sfitte e delle grandi strutture abitative vuote e/o semivuote (caserme, uffici in disuso, conventi e proprietà degli ordini religiosi) metterebbe in luce come a fronte di un'acutissima fame di case, prosegua lo scandalo di un immenso patrimonio abitativo tenuto in stato di non locazione.
Il patrimonio edilizio ostaggio degli interessi di pochi deve essere restituito alla collettività, devono essere colpite le speculazioni della grande e piccola proprietà immobiliare. Non si può più pensare di aspettare un aiuto promesso che non arriva o è comunque troppo poco. Aspettare una manna dal cielo che faccia svoltare situazioni oramai troppo pesanti.
Impariamo qualcosa dalla signora Irene, impariamo a prenderci ciò che ci spetta, impariamo a lottare per i nostri diritti o, la dimostrazione è sotto gli occhi di tutti, continueranno impunemente ad essere calpestati.

Una nuova occupazione migrante nella necropoli dell'Expo (n°5, novembre 2010)


Milan l’è semper Milan, dice un vecchio proverbio. E per fortuna Milano non è solo la città amministrata coi manganelli e le telecamere del vicesindaco De Corato, né la necropoli della speculazione targata Expo 2015 (e macchiata di ‘ndragheta…). No. Per fortuna Milano è anche la metropoli dove i fenomeni sociali del nostro tempo emergono, s’intrecciano, fermentano, e le contraddizioni – attrito dopo attrito – si surriscaldano fino a sfociare in aperti conflitti.
Così, in questo principio d’autunno 2010, non sono solo i reclusi nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) a rivoltarsi, né i lavoratori delle aziende in crisi a incazzarsi, né gli studenti in protesta a bloccare le arterie di circolazione di persone e di merci. Tra il 17 e il 18 settembre, infatti, è partita una nuova esperienza di occupazione da parte di alcune famiglie migranti, in zona Città Studi, nella parte est di Milano. In una palazzina di proprietà privata, vuota da anni, il Coordinamento Azione Migrante ha così dato vita alle Case Occupate Autogestite di Via Sangallo 5. Protagoniste sono una decina di famiglie dal Bangladesh, dal Perù e l'Ecuador, che denunciano l’ostilità della Milano ossessionata dall’ordine pubblico e rivendicano l’accesso ai diritti sociali, primo fra tutti quello alla casa. Un altro spunto interessante è dato dal fatto che gli occupanti si sono detti disponibili ad includere nel loro percorso alcune famiglie Rom sfrattate dal campo di Via Triboniano, che il comune ha deciso di chiudere.
Inutile dire come De Corato si sia affrettato a sparare a zero sulla vicenda, ripetendo la solita litania sulle violazioni della legalità e mettendo nel calderone anche tutte le altre 12 occupazioni che punteggiano il territorio milanese. Invocando, ovviamente, una bella ripulita. Per il momento, comunque, la situazione non sembra particolarmente a rischio sgombero. L’immobiliare proprietaria dello stabile, infatti, non si azzarda a chiedere un intervento aggressivo delle forze dell’ordine perché ha già un po’ di problemi con la giustizia. In ogni caso, l’attenzione sul questa nuova occupazione va tenuta alta.
Quanto ai contenuti dell’azione, il comunicato di presentazione parla chiaro: sono persone come noi, che lavorano nei cantieri e nelle case degli italiani come colf e badanti, i cui figli sono nati qui. Hanno pagato migliaia di euro per essere regolarizzati con l’ultima sanatoria, per i ricongiungimenti familiari, per le iscrizioni a scuola dei bimbi, per le tasse, per gli affitti. Trovando solo istituzioni cieche e sorde alle loro richieste. E il razzismo alimentato quotidianamente dal discorso politico ufficiale. Per questo hanno scelto la via dell’occupazione: per rispondere (senza se e senza ma!) ai loro bisogni, in primo luogo. Ma anche per porre sul tavolo un problema politico. I diritti dei migranti e dei Rom, infatti, sono una questione politica centrale, nell’Europa di oggi (e quindi in Italia e a Milano). Una questione politica centrale che però viene nascosta dalla giunta Moratti con la falsa retorica sulla “legalità”. Parlando di “difesa della legalità” contro i Rom, i clandestini e le occupazioni di immobili, infatti, si trasforma un tema sociale e politico (solitamente ignorato dalle istituzioni) in un semplice problema di ordine pubblico. È una comoda strategia per evitare di studiare in profondità il fenomeno, di trattare alla pari con i diretti interessati, di mettere in atto delle soluzioni. De Corato la mette giù facile: mandare la polizia a ristabilire la “legalità”. Una legalità che nella pratica si traduce in guerra contro i poveri, se per legalità si intende lasciare gli appartamenti sfitti in una città come Milano. Ma se la legalità la vediamo in maniera diversa, cominciando da una casa per tutte e per tutti, allora ben vengano altre cento occupazioni! Non solo nella metropoli, ma anche qui da noi a Pavia e provincia, praticamente periferia sud di Milano. Del resto, abbiamo già un ottimo precedente distante solo pochi chilometri da noi: la stazione occupata di Gambolò-Remondò. Speriamo non sia l’unica.
E come sempre: solidarietà con tutti gli occupanti!

Per saperne di più:
• Il comunicato degli occupanti http://lombardia.indymedia.org/node/31693
• Intervista su Radio Onda d’Urto http://www.radiondadurto.org/agenzia/2010-09-22-18-27_red_casa-milano-bruno-viasangallo.mp3
• Rom a Milano http://lombardia.indymedia.org/node/31460
• Le dichiarazioni di De Corato http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/CDM?WCM_GLOBAL_CONTEXT=/wps/wcm/connect%2Fcontentlibrary%2FGiornale%2FGiornale%2FTutte+le+notizie%2FRapporti+Consiglio+Comunale+e+Attuazione+del+programma+Sicurezza%2FSicurezza_leoncavallo_sfratto

Razzismi: a volte ritornano (n°5, novembre 2010)


Minestre riscaldate a suon di espulsioni: il pericolo extracomunitario sempre presente in tempi di crisi


Il ritorno del razzismo in europa
Sarkò lancia l'amo, l'Europa raccoglie (e l'Italia l'ingoia con gioia!).
Il presidente francese ha trovato un classico, nonché secolare, modo per distogliere l'attenzione dalla crisi politica che incombe sul suo mandato...
Quest'estate puntando il dito contro l'annoso e terribile problema dei rom e degli immigrati irregolari annuncia l'attuazione di un piano di severe misure nei loro confronti: comincia lo smantellamento di decine di campi, vengono rimpatriati 700 rom bulgari e rumeni e viene inoltrata la proposta di ritirare la cittadinanza alle persone di origine straniera “che attentano alla vita di agenti di polizia o altre autorità pubbliche”. Del “problema rom” se ne fa una questione nazionale e per l'occasione viene anche creato ad hoc un ministero dell'identità nazionale.
La discussione si allarga a livello europeo assumendo aspri toni nel momento in cui il vice-presidente della commissione eu, commissario alla giustizia e diritti umani, fa notare quanto una tale discriminatoria disposizione non sia accettabile e ricalchi percorsi che l'Europa ha già visto in passato, con esplicito riferimento alle persecuzioni di ebrei e zingari durante la seconda guerra mondiale.
Il piano non viene ritirato e nei confronti della Francia si apre una procedura d'infrazione della norma europea sulla libera circolazione. In questo frangente, l'Italia si schiera apertamente a favore della linea francese (d'altronde già a maggio a era partito un piano di sgombero dei campi rom irregolari, cominciato con via Triboniano, e continuato a settembre con via Rubattino)
In occasione di questo nuovo asse Roma-Parigi assieme al “problema immigrazione” riemergono “l'allarme sicurezza”, le accuse razziste contro i rom/rumeni (con gravissima confusione dei termini) di pericolosità sociale e tutto il carico di retorica xenofoba e populista.

I retroscena
Il buon senso, di fronte a tali notizie, indurrebbe a chiedersi se il presidente francese sia impazzito improvvisamente.
In realtà, un occhio generale alla situazione politica del paese ci da un quadro molto più chiaro: le prossime elezioni si terranno nel 2012, e ad ora la popolarità del presidente è ai minimi storici.
Il 7 settembre una manifestazione di oltre 2 milioni di persone ha dato espressione ad uno dei più grandi scioperi degli ultimi anni (la protesta riguardava il progetto di riforma che prevede l'aumento dell'età pensionabile); la percentuale di disoccupazione, 10%, decisamente superiore alla media europea incrementa il malumore popolare. A ciò si aggiunga il fatto che una lunga serie di scandali ha portato alle dimissioni del segretario di stato per la cooperazione Alain Joyandet, del responsabile delle infrastrutture Christian Blanc e vede coinvolto adesso anche il ministro del lavoro Eric Woerth.
Il parallelismo con la condizione dell'attuale governo Berlusconi viene spontaneo: in generale l'Italia sta scontando le conseguenze della crisi economica degli ultimi anni e del mal governo. Dopo gli scandali che hanno coinvolto trasversalmente esponenti di quasi tutti i partiti rivelando una classe dirigente corrotta e gravemente collusa con l'apparato mafioso, la crisi parlamentare di quest'estate ha portato a paventare le elezioni anticipate.
Solo pochi giorni fa si è conclusa la manifestazione nazionale largamente partecipata indetta dalla Fiom e che ha rilanciato uno sciopero generale a breve. Inoltre si sta profilando un autunno di mobilitazioni da parte del mondo della pubblica istruzione, in particolare universitaria.


E quindi?? il razzismo come dispositivo politico
...e quindi ecco che il caso francese, tanto quanto quello italiano, si dimostrano (neanche troppo brillanti) esempi di demagogia e di come il razzismo non sia che un utile strumento in questo senso.
Laddove una classe dirigente non è in grado di mantenere il controllo della nazione in periodi di grave crisi economica e politica, col rischio di assistere ad una fuga di voti, è gioco forza estrarre il capro espiatorio dal cappello. Il soggetto stereotipizzato e criminalizzato è ovviamente quello che verte nella condizione economica e sociale più sfavorevole (che sia uno straniero, un lavoratore in sciopero o un omosessuale poco cambia).
Cavalcare il diffuso malumore popolare, individuare un elemento di problematicità secondario su cui scaricare responsabilità e impugnare rivendicazioni irrazionali e irragionevoli è una pratica politica ormai nota atta a mantenere o recuperare il consenso di un elettorato malcontento e permette inoltre di sviare l'attenzione mediatica nazionale ed internazionale dai reali problemi che attraversano la nazione.
Gli elementi ci sono tutti, in Francia tanto quanto in Italia.


Giustificazioni ideologiche, applicazioni pratiche e conseguenze....
Nel nostro bel paese le politiche discriminatorie nei confronti degli immigrati irregolari vengono giustificate da un lato in virtù di una emergenza dovuta alla peculiare geografia italiana (le coste molto estese), della mancanza di posti di lavoro e di alloggi.
Ma quando si passa sul terreno dell'ideologia la faccenda si fa molto più grave.
Affermare una presunta pericolosità sociale legata alla cultura d'origine, rispolverare concetti di razza e d'idea di nazione su vincoli di sangue -la legittimità scientifica di tali argomentazioni è inesistente- creare stereotipi su minoranze impossibilitate a difendersi o introdurre differenze di pena su base etnica innesca meccanismi di violenza culturale e non solo ben difficilmente controllabili. Il giochetto del populismo elettorale lo pagano in primis, concretamente e a caro prezzo sulla loro pelle gli stranieri che si ritrovano in breve tempo senza più casa, lavoro, vita e con un carico di odio razziale da affrontare.
Ben vengano allora tutte le forme di riappropriazione di spazi, si veda l'esempio del nuova palazzina occupata nell'area est milanese, ma occorre anche riscoprire terreni di lotta comuni alle varie soggettività di volta in volta coinvolte.
L'approvazione di leggi quali quella sulle impronte digitali, l'uso e abuso di telecamere in ogni zona delle nostre città, l'imposizione del coprifuoco in particolari aree urbane dopo un dato orario (a Milano viene imposto da ormai alcuni mesi) o l'introduzione di pattuglie dell'esercito per garantire la sicurezza sono espressione di un aumentato livello di repressione sociale..... e riguardano tutti i cittadini.

Euskadi. La repressione contro il processo democratico (n°5, novembre 2010)


Nella giornata del 3 ottobre a Bilbao si sono riversati per le strade migliaia di Baschi, in corteo per la libertà del loro popolo soggetto a fortissime repressioni da parte dello stato spagnolo. Secondo il quotidiano basco “GARA” in corteo erano presenti 46 mila persone, che portavano avanti la proposta di un processo democratico di pace per la risoluzione del conflitto.
La repressione spagnola va a colpire in tutti gli aspetti della vita pubblica dei cittadini e delle cittadine dei Paesi Baschi, che si vedono quotidianamente infrangere i loro diritti fondamentali, come ad esempio il diritto di essere informati. Nel 1998 per la prima volta dal dopo la guerra in Europa vennero fatte chiudere una testata giornalistica ed una stazione radiofonica: questo è ciò che avvenne al quotidiano EGIN ed alla stazione radiofonica EGIN IRRATIA .
EGIN, giornale indipendentista, iniziò la sua attività nel 1977 per una forte esigenza del popolo basco di creare un proprio organo di informazione, diventando di fatto un forte mezzo comunicativo per tutti i cittadini e le cittadine e per i movimenti sociali nati durante quegli anni, e per mostrare a livello internazionale quale era ed ancora oggi è la macchina repressiva dello stato spagnolo nei confronti dei baschi.
EGIN durante gli anni novanta si occupò di moltissime inchieste di denuncia sulla corruzione, sul narcotraffico, fino ad arrivare al terrorismo di stato portato avanti da formazioni paramilitari: i cosiddetti GALL (gruppi armati di liberazione), formazione composta da esponenti dell’estrema destra spagnola ma anche da militanti della destra eversiva italiana. La stessa organizzazione terrorista, che venne analizzata nei vari dossier di EGIN, il 20 novembre del 1989 ne uccise il caporedattore, Jusu Moguruzza.
La stampa di EGIN venne considerata dalla Casa bianca come il “miglior foglio rivoluzionario al mondo”, per Madrid “il mirino di ETA”, per i Paesi Baschi un punto di riferimento.
Nel 1998 venne portato un attacco politico-repressivo condotto dai rappresentanti del potere dello stato contro EGIN e contro la sua impresa editoriale ORAIN SA, travolti da una forte criminalizzazione che divenne una vera e propria persecuzione politica, mediatica, giuridica.
Nella giornata del 15 luglio si presentò davanti alla sede di EGIN un massiccio quantitativo di forze dell’ordine, che entrarono nello stabile distruggendo gli archivi, rovinando i macchinari della tipografia, ed il ruolo che ebbe la magistratura fu quello di sbarrare le porte di EGIN per sempre. I capi d’accusa portati avanti dal giudice Baldasar Garzon si basavano sull’ipotesi che l’organizzazione ETA dirigesse la linea editoriale del giornale e che si occupasse dei finanziamenti.
Il giorno seguente alla chiusura i giornalisti di EGIN si riorganizzarono e decisero di fotocopiare un centinaio di copie di un vecchio numero di una testata registrata come “EUSKADI INFORMACION”, che scriveva come titolo in prima pagina “Egin egindo dugu” (“beccatevi Egin”), che venne distribuita a vari cittadini che si unirono anche loro alla protesta ed iniziarono a fotocopiare il giornale diffondendolo il più possibile: da cento copie divennero mille e cosi via.
A distanza di un anno la popolazione basca iniziò a sentire la mancanza di una testata giornalistica indipendentista che potesse dare una forte rappresentanza della cittadinanza, e a livello di mercato si creò un grosso buco commerciale. Prese vita il nuovo progetto giornalistico GARA, grazie alla partecipazione popolare tramite sottoscrizioni per l’acquisto di azioni. GARA, con la linea editoriale di EKNE, ha come scopo quello di riflettere la situazione sociale, economica e politica dei Paesi Baschi secondo una linea precisa: quella che difende la costruzione di Euskal Herria come paese in cui si rispettano i diritti, collettivi e individuali, di tutti i cittadini e le cittadine basche.
Nel 2003 l’Audiencia Nacional, sempre per mano del giudice Baldasar Garzon, ha esercitato la propria influenza nei confronti della tesoreria generale della previdenza sociale per far sì che venisse attribuita a GARA la responsabilità economica di un forte debito pari a 5,1 milioni di euro.
E ha affermato anche che tra le due testate giornalistiche (EGIN-ORAIN SA e GARA EKNE) esiste una successione editoriale.
In realtà questa è una grossa falsità perché non sussiste nessun collegamento tra ORAIN SA e EKNE visto che i beni imprenditoriali di EGIN sono stati messi sotto sequestro, ed il capitale che è stato usato per dare vita a GARA viene dal contributo di sottoscrizioni popolari. L’unica cosa che non è cambiata sono i giornalisti, visto che dopo la chiusura di EGIN si trovarono disoccupati.

In data 14 novembre 2009 in una conferenza stampa la Sinistra Abertzale (indipendentista) ha esposto una piattaforma politica basata su 7 punti per chiedere un tavolo di trattative con il governo spagnolo.
1. Il primo punto analizza la volontà popolare espressa attraverso vie pacifiche e democratiche,
diviene l’unico riferimento del processo di sviluppo così come per raggiungere gli accordi che dovranno essere condivisi dai cittadini e dalle cittadine. La sinistra Abertzale, come dovrebbe fare il resto degli attori politici, si impegna solennemente a rispettare ogni fase del processo decisionale che liberamente, pacificamente e democraticamente adotteranno i cittadini e le cittadine basche.
2. L’ordinamento giuridico - politico risultante, in ogni fase deve essere conseguenza della volontà popolare e deve garantire i diritti di tutti i cittadini e le cittadine. Le cornici legali vigenti in ogni fase non possono essere freno o ostacolo alla libera volontà popolare democraticamente espressa, ma devono essere bensì garanzia del suo esercizio.
3. Gli accordi da raggiungere nello sviluppo democratico dovranno rispettare e regolare i diritti riconosciuti tanto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, come nel Patto Internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali e il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, così come altre normative internazionali concernenti i Diritti Umani, siano essi individuali o collettivi.
4. Il dialogo politico inclusivo, a parità di condizioni, diviene il principale strumento per raggiungere accordi tra le differenti sensibilità politiche del paese. La sinistra abertzale dichiara la sua totale volontà di essere parte di questo dialogo.
5. Nel quadro del processo democratico il dialogo tra le forze politiche deve avere come obiettivo un Accordo Politico Risolutivo,che dovrà essere approvato dalla cittadinanza. L’accordo risultante dovrà garantire che tutti i progetti politici possano non solo essere difesi in condizioni di pari opportunità ed in assenza di qualsiasi forma di coesione o ingerenza, ma che possano materializzarsi se questo è il desiderio maggioritario della cittadinanza basca espresso attraverso i procedimenti legali idonei.
6. Il processo democratico deve svilupparsi in assenza totale di violenza e senza ingerenza, mediante l’utilizzazione di vie e mezzi esclusivamente politiche e democratiche.
7. Si deve stabilire un processo di dialogo ed accordo multipartitico a parità di condizioni tra l’insieme delle forze del paese, che favorisca la creazione di un quadro democratico con il quale la cittadinanza possa decidere liberamente e democraticamente rispetto al suo futuro come deciso dalla volontà popolare. D’altro canto deve stabilirsi un processo di negoziazione tra ETA e lo stato spagnolo che contempli la smilitarizzazione del paese, la liberazione dei prigionieri e prigioniere basche, garantire il ritorno degli esiliati ed esiliate e un trattamento giusto ed equo delle vittime del conflitto. Per tutto questo, riaffermiamo la nostra posizione senza riserve rispetto ad un processo politico pacifico e democratico per raggiungere una democrazia inclusiva dove il Popolo Basco, libero e senza intimidazione di alcun tipo, determini liberamente il suo futuro.
A questi sette punti lo stato spagnolo risponde con un silenzio assordante, continuando con il solito sistema repressivo.
Nella giornata del 5 settembre l’organizzazione ETA ha inviato un comunicato alla redazione della “BBC” in cui veniva esposta la dichiarazione dell’alt al fuoco da parte dei suoi militanti. ETA vuole dare un grosso segnale per intraprendere il cammino verso un processo democratico tramite l’espressione della volontà popolare, aprendo le porte verso un nuovo tipo di politica, abbandonando la lotta armata, per aprirsi ad un dibattito politico. Tutti uniti, i cittadini e le cittadine, le organizzazioni politiche, sociali e sindacali possono decidere liberamente, in democrazia, il futuro dei Paesi Baschi.
ETA riafferma la necessità di intraprendere un processo democratico per la risoluzione del secolare conflitto politico che attanaglia il popolo Basco, tramite un appello alla comunità internazionale sull’articolazione di una soluzione permanente e giusta, democratica, per la risoluzione del conflitto basco ad esempio come avvenne per Irlanda o Sud Africa.
Per i membri del governo e delle varie forze dell’ordine questa dichiarazione di ETA non è da prendere in considerazione perché sostengono che non abbia validità. Come sostenuto più volte le istituzioni non si accontenteranno di un alt al fuoco provvisorio o permanente, ma vogliono le dichiarazioni da parte di ETA di un totale scioglimento dell’organizzazione. La linea politica dello stato spagnolo rimane quella di continuare la lotta al terrorismo fino ad arrivare al totale smantellamento della cupola.
Martedì 28 settembre un’operazione repressiva da parte della polizia nazionale spagnola ha portato all’arresto di 7 militanti di Askapena (organizzazione internazionale basca) già da tempo soggetta a forte criminalizzazione da parte della stampa, che sostiene che questa organizzazione sia impiegata per mantenere i rapporti internazionali da parte di ETA.
Il capo di accusa rivolto dal giudice Pablo Ruz nei confronti dei sette militanti si basa sul teorema fondato dal giudice Baldasar Garzon “TUTTO è ETA” (in poche parole tutto ciò che entra in una logica indipendentista viene considerato ETA).
Questo è l’ennesimo attacco contro il processo di democratizzazione che sta avvenendo nei Paesi Baschi.
Lo stato spagnolo reprime, con il sangue, un popolo che sta decidendo il suo futuro in maniera del tutto indipendente. La Spagna deve accettare le condizioni poste dai cittadini e dalle cittadine basche in nome del diritto all’autodeterminazione popolare.
Gora Euskadi Askatuta
Euskal Presoak Euskal Herrira
Euskadi autodeterminazioa ta amnistia!

Palestina. L'arcipelago oltre l'area C (n°5, novembre 2010)


Come spesso mi accade, ho di recente sfogliato un quotidiano che si reputa indipendente e propositivo di un punto di vista scientificamente critico sulla politica estera contemporanea. Non è un quotidiano propriamente di sinistra, anzi non lo è per nulla. Cerco le pagine di politica internazionale, il tema è il conflitto israelo-palestinese. Tre articoli ben scritti, seppur contestabili quanto a contenuti ed affermazioni: l’ultimo, a fondo pagina, inveisce contro Amnesty International, associazione impegnata nella difesa dei diritti umani (e qui l’autore ironizza) rea di definire senza indugio e, a detta dell’autore, senza ragione lo stato ebraico non ricordo esattamente se canaglia, farabutto o stupratore dei diritti umani. Il senso, credo, non cambia.
Quel su cui il nostro giornalista si sofferma è il temibile ritorno di un’ondata di odio razziale antisemita, che il propagarsi nel mondo di islamici ed islam propugna trovando orecchio compiaciuto in quella fetta di italiani instancabilmente ancorati a sinistra (credo non distingua il pensiero di sinistra dal PD). Quel che non viene raccontato è il perché di un’affermazione tanto aggressiva da parte di un’associazione riconosciuta a livello internazionale per l’ottimo lavoro in materia di diritti umani e la ponderatezza di termini ed affermazioni.
Non ho acquistato di persona il quotidiano in questione, lungi dal voler arricchire chi da tempo si permette grassi e grossi pasti. Pongo dunque con garbo la questione alla lettrice di cultura che acquista abitualmente il quotidiano, dando per scontato che fosse a conoscenza di risoluzioni Onu non rispettate da Tel Aviv, di uranio impoverito, di bombe al fosforo, di colonie in espansione e, fermiamoci pure qui, di un muro in costruzione. “Risoluzioni Onu?”, risponde. No, il suo quotidiano non ne parla, non ne hai mai fatto riferimento. Beh, le rispondo, sei andata più volte in Israele, avrai visto con i tuoi occhi i check-point, la discriminazione, l’abuso di potere …
La sua risposta mi ha fatto riflettere. Interagiamo con connazionali che accettano le informazioni proposte dal regime senza approfondirle o richiedere spiegazioni, dettaglio che diventa grave nel momento in cui siamo circa a metà classifica nella graduatoria mondiale in materia di libertà d’informazione. Le informazioni arrivano distorte e sfaccettate a piacimento: i lettori restano annebbiati dagli zuccherini di turno, che risultano vincenti anche in momento di crisi. Alla stregua della religione secondo Marx. Se ci riesce il governo italiano, figuriamoci come strutturano tutto a puntino gli israeliani al momento di accogliere pellegrini cristiani che, a dispetto del conflitto in corso, si recano a Tel Aviv e Gerusalemme. A loro non trapela alcun sospetto.
Ritengo doveroso diffondere informazioni e notizie altrimenti di difficile reperibilità. Ho contato 75 risoluzioni Onu che riprendevano le politiche di Tel Aviv, dal 1948 ad oggi: ho allegato un pensiero di Desmond Tutu (da poco ritirato a vita privata, Nobel per la pace nel 1984) in cui afferma di “avere rivisto nelle pratiche dei governi israeliani rispetto ai palestinesi e nell'«abominevole» blocco di Gaza, molto di quanto era capitato a noi neri in Sudafrica”, sottolineando che la fonte è un quotidiano fazioso, il Manifesto di venerdì 8 ottobre. Ed ho spedito il tutto alla lettrice inconsapevole.
Quest’estate un mio caro amico ha trascorso qualche mese nei territori occupati, come inviato di Limes Online, rivista di geopolitica. Come ci suggerì Amira Hass nel corso di un recente workshop, l’inviato speciale ha indagato sulla suddivisione in “aree” di tutto il territorio Palestinese, Area A,B e C. “Area C è il termine tecnico che, secondo la divisione amministrativa decisa dall’ “Interim Agreement” degli Accordi di Oslo (1993-1995), designa il territorio della Cisgiordania sotto esclusivo controllo israeliano, militare e civile. Un controllo che sarebbe dovuto durare solo cinque anni e che invece continua tutt’oggi, a discapito del diritto internazionale e degli oltre 150.000 palestinesi che ci vivono. Un territorio che rappresenta oltre il 60% dell’intera Cisgiordania. Non si può costruire niente in Area C senza prima ottenere il permesso della Dco (District Coordination Offices), l’Amministrazione Civile israeliana. Permesso che, le rare volte che viene accordato, richiede anni d’attesa. I 120 kilometri di Valle del Giordano rappresentano la più grande estensione continua di Area C. Un’eccezione nella cartina a macchia di leopardo della Cisgiordania. Annessa de facto da Israele, la Valle del Giordano viene considerata il confine naturale tra stato ebraico e Giordania. Il 95% del territorio è sotto il diretto controllo israeliano, stando alle cifre dell’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari). Il 44% è riserva naturale o “Military Firing Zone”, zona adibita esclusivamente all'addestramento militare. Più del 50% del territorio, invece, è occupato dalle colonie. Alle comunità palestinesi che abitano i 17 villaggi della zona, in maggioranza beduini seminomadi, non rimane che il 6%. Prima del 1967 si stima che la Valle del Giordano fosse abitata da più di 300.000 palestinesi. Oggi ne sono rimasti meno di 60.000, di cui la stragrande maggioranza vive nelle città di Gerico e Tubas. Quasi tutto il territorio della valle è in Area C, ma alcuni villaggi, come Jiftlik, si trovano in parte anche in Area B. La differenza la si percepisce guardando i tetti delle case. Le costruzioni che sorgono in Area C, illegali per il diritto israeliano, hanno il tetto in lamiera. Meno costoso e più facile da ricostruire in caso di demolizione”. Altri villaggi, svariati nel nord-ovest, “rappresentano un esempio lampante dello strangolamento sociale ed economico che subiscono quotidianamente alcune comunità locali: il nucleo cittadino vero e proprio (Area A), una sottile cintura di spiaggette in bassa marea (Area B), un ampio anello di mare tutt’attorno (Area C). é il muro a limitarne confini e crescita: dal 2003 con la costruzione del muro, che in questa zona per raggiungere e collegare ad Israele le colonie si addentra nel territorio palestinese anche di 15 chilometri dalla Linea Verde (confine deciso dall'armistizio del 1949), molte comunità periurbane si sono trovate scollegate dalla città e dal mondo esterno”.
A noi non resta che dar voce a questo triste pezzo di storia, e ricordare che a cavallo di Natale partirà un’altra spedizione navale per rompere lo stato di embargo imposto a Gaza; e che in tanti (soprattutto all’estero in nome della propaganda Bds) si stanno impegnando a boicottare merce israeliana prodotta nelle terre confiscate illegalmente ai palestinesi.